Capitolo 23

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"Che palle", sbuffo e sono passati appena dieci minuti da quanto Alex si è rintanato in quella maledetta stanza a far Dio sa cosa. Mi alzo dallo sgabello con ancora qualche difficoltà. Non sono ubriaca ma sarebbe bastato un solo bicchiere in più per mettermi fuori gioco. Cammino fra i tavoli vuoti, è quasi più bello così senza quel vociferare e sopratutto senza quelle belle quanto stronze ragazze che ballano attorno ad un palo. Mi avvicino ad uno dei cubi guardandolo male. Non è colpa sua se gli occhi di Alex lo fissano come se fosse una bistecca di carne, ma so che che quello che lui guarda è ben altro. Sospiro passando le dita sulla superficie liscia e nera sulla quale quelle ragazze ballano. Mi sento così stupida, piccola ed ingenua mentre fantastico sull'idea che quegli occhi, siano soltanto per me.

Sono bassa, piccola e nemmeno così magra come loro e il mio viso infantile non aiuta affatto la mia scarsa femminilità. Non so perchè in questo momento io stia pensando a cose simili, non ha alcun senso e mai mi ero imposta un simile problema. Mi sono sempre accettata per quello che sono, da un mese a questa parte invece, sono in grado di notare solo i difetti, mai un pregio in me. Mi do una spinta sulle gambe salendo sul cubo, sfioro il palo metallico con le dita. E' freddo, privo di qualunque emozione. Mi chiedo se a quelle ragazze piaccia il loro lavoro. Scuoto il capo prima di sedermi a terra incrociando le gambe fra loro. La schiena contro quel palo e migliaia di dubbi nelle testa e purtroppo, anche nel cuore. Sono passati altri cinque minuti e la rabbia, inspiegabilmente, inizia a prendere il sopravvento. Che senso ha chiedermi di restare, quando poi mi ignora tutto il tempo? Sono in grado di tornarmene a casa da sola come ho sempre fatto e proprio quando decido di alzarmi e andarmene senza neppure salutarlo, la sua voce mi blocca. Come sempre.

"Che stai facendo lì sopra?". Alzo di scatto la testa nella sua direzione.

"Io....nulla, mi annoiavo", scrollo le spalle. "Non sei di buona compagnia", aggiungo sorridendo beffarda.

"Beh, ho le mie cose da fare", replica infastidito. "E scendi da lì", aggiunge guardandomi male.

"Perchè mai?". Inclino la testa restando esattamente dove sono.

"Perchè non puoi starci", stride fra i denti. Non capisco cosa lo infastidisca così tanto.

"Non sono carina come quelle che ci lavorano?". Domando completamente fuori da ogni mio controllo, eppure sono più che sicura di non essere ubriaca. Almeno credo.

"Smettila e scendi", fa per avvicinarsi ma non del tutto.

"Fammi scendere allora", ghigno leccandomi le labbra.

"Sophia", il mio nome lascia le sue labbra come una supplica o forse è solo stufo di me.

"Alexander", dico il suo nome lentamente, come se lo stessi assaggiando lettera dopo lettera. "Non essere così noioso. Dovevo pur divertirmi in qualche modo in tua assenza".

"Sei ubriaca, di nuovo", sembra un rimprovero.

"Quindi? E poi non lo sono", mi acciglio. "Che stavi facendo di lì?". Mi alzo restando al fianco di quel palo, non ho alcuna intenzione di cedere. Non così facilmente. I suoi occhi seguono ogni mio movimento, non mi perdono mai e non riesco, per ora, a sentirmi a disagio per questo.

"Quindi scendi, ti accompagno. Devo restare qui più del previsto", prende un lungo respiro quando mi poggio con la schiena al palo.

"Posso restare anch'io, non ho sonno".

"Ti annoieresti", fa una smorfia. "Su, muoviti".

"Posso andare anche da sola. Non mi serve un badante", sbotto portando le mani ai fianchi.

"Direi di si", mi guarda male mentre mi tende una mano che non afferro. "Sembri una bambina".

"Lo ero quando mi hai abbandonata", mi lascio sfuggire, il suo sguardo si incupisce e come sempre, ho rovinato tutto.

La cura [H.S.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora