Dicono che noi siamo gli autori del nostro destino. Se così fosse, sono una pessima autrice. Ho avuto poca fantasia, poca voglia di inventarmi una vita più semplice, più bella ma sopratutto più felice. Non so cosa sia la felicità. Da quando sono piccola ho combattuto contro qualcosa di ignoto, almeno fino ad un certo punto. Quando correvo stavo bene, poi stavo male, mi faceva male il petto, avevo solo dodici anni e a dodici anni dovresti essere nel pieno delle tue forze ma io non lo ero. Pochi sanno di questo piccolo dettaglio di me, che tanto piccolo non è. Non sarei viva, non sarei qui davanti lo specchio della mia stanza a tracciare i contorni di una cicatrice ancora troppo spessa nonostante gli anni passati. Mia madre dice che sono una miracolata, forse ha ragione ma non credo che i genitori del ragazzo che quattro anni fa è morto, la pensino così. Ma sono stati dei grandi, ci vuole coraggio a dare un pezzo di se a qualcuno che nemmeno conosci.
Essere malata di cuore, a soli dodici anni mi ha sconvolto. Ha sconvolto me, ma sopratutto mio padre. Sentivo i miei genitori parlare tanto la notte ed anche se sussurravano, io sentivo. In realtà, non ci ho mai capito nulla, parlavano di una cura, un modo per porre fine ad una sofferenza che nel giro di qualche anno mi avrebbe portata alla morte. Io lo sapevo, sapevo che la mia condizione fosse grave ma non ho mai capito di che tipo di cura parlassero, ne perché non l'avessero mai messa in pratica aspettando un trapianto che era arrivato giusto in tempo.
Giusto in tempo. Erano queste le parole del dottor Connel quella sera, quando dopo sette ore sono uscita dalla sala operatoria con una strana sensazione dentro di me. Il post è stato difficile, c'era il pericolo che il mio corpo non accettasse un altro cuore, ma non sentivo la mancanza del mio e c'è l'ho fatta. Dopo novanta giorni, sono stata dichiarata fuori pericolo, sono tornata a casa, sono tornata a scuola, ma nessuno sapeva, neanche i vicini. Non si sono mai chiesti che fine avessi fatto in quei mesi estivi, dove l'auto di mio padre non era mai parcheggiata al suo posto. Alex, non mi aveva chiamata, eppure una sera, la prima dopo il mio ritorno, mi era sembrato di vederlo dietro la tenda a guardare me, ma era stato un attimo, un attimo che probabilmente non era neanche esistito.
Nessuno sa e forse va bene così, non voglio far pena a nessuno. Non voglio che smettano di tormentarmi solo per questo.
Non voglio gli occhi tristi della gente addosso.
Sospiro, lasciando perdere quel segno che porterò sempre con me. Nonostante non sia bellissimo, come d'altronde ogni cicatrice, mi piace. Mi ricorda quanto sono stata fortunata ad avere una seconda possibilità che non tutti hanno. Infilo un maglione rosso molto pesante, agguantando dall'armadio una maglia a mezza manica nera per questa sera. In quel locale si muore dal caldo. Al sol pensiero trasalisco. Non credo di essere pronta ma non posso non esserlo. Sono in prova e Dave, non perderà occasione per mettermi in difficoltà. Per una volta, voglio mostrargli di che pasta sono fatta, lo sfiderò se necessario, ma quel lavoro mi serve ed anche al più presto. Anche questa notte mio padre è rientrato tardi, non so cosa faccia. Voglio e non voglio saperlo, ma sopratutto voglio capire cosa sta rovinando il suo conto in banca. Da quel che ne so, la sua attività non va così male ma forse non so davvero tutto.
Afferro lo zaino e la mia giacca, prima di imbattermi nell'ennesima monotona giornata invernale di Londra. Odio il freddo, ho sempre freddo, tranne quando mi alleno in quella sorta di cella frigorifera che chiamano palestra. In realtà è un garage e a me va più che bene restare nascosta lì sotto a tirare pugni ad un sacco all'insaputa di mia madre. So che si preoccupa per me, che non è il massimo fare uno sport così duro per una che ha subito un trapianto di cuore, ma non mi importa. Posso farlo, ora sto bene e voglio vivere, vivere davvero.Quest'odore lo riconoscerei fra mille e non me ne stancherei mai. Da oltre un anno, passo tre pomeriggi a settimana in questo posto, ma mi sembrano essere sempre pochi. Cerco di non strafare, di non sfidare la sorte, ma quando inizio, so che non sarà facile fermarsi. Lascio lo zaino in uno sgabuzzino tutto mio, qui dentro non esiste di certo lo spogliatoio femminile ma a nessuno sembra dar fastidio la mia presenza. Sbuffo per l'ennesimo messaggio di Ben, sto davvero cercando di essere carina ma la sua insistenza e il suo voler costantemente sapere dove mi trovo, comincia a darmi sui nervi. Lui non sa che pratico box, lui non sa dei miei problemi di salute ed è sbagliato. E' il mio ragazzo e forse avrei dovuto metterlo al corrente di alcune cose ma non ci riesco. Mi fido di lui, per quanto io possa fidarmi di una persona. So che capirebbe e che ad un certo punto i suoi tentativi di farmi cambiare idea finiranno, ma non riesco ugualmente ad aprire l'argomento. Non ne conosco il motivo. Da sempre, o forse è meglio dire, da dieci anni, non riesco più ad aprirmi completamente con qualcuno. So che con Alexander era diverso, eravamo piccoli ed era facile raccontarsi, ma non era solo quello. Sentivo qualcosa di diverso, sentivo comprensione, intesa, stavamo bene, poi tutto è cambiato. L'estate di otto anni fa è scomparso per tre mesi. Ricordo di aver pianto tanto a casa sua quando trovai il suo armadio vuoto. L'unica volta che i suoi genitori mi diedero il permesso di entrare, poi non più.
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La cura [H.S.]
Fanfiction"Mi stai curando". "Forse è il contrario". Così vicini eppure così lontani. Da oltre dieci anni, Sophia e Alexander condividono lo stesso condominio e l'odio che i loro rispettivi genitori covano l'uno nei confronti dell'altro. Un segreto, un errore...