Capiolo 53

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Apro la porta di casa, è totalmente diverso rispetto a questa mattina.
"Sophia", vedo mia madre correre nella mia direzione in lacrime e mio padre raggiungerci subito dopo.
"Grazie a Dio", sospira mio padre attirandomi in un abbraccio che non riesco a ricambiare.
"Dobbiamo parlare", dico allontanandomi da lui. "Subito".
"No, dobbiamo andare", sbotta mia madre, e solo allora noto gli scatoloni, la casa vuota e la mia valigia rossa al fianco delle loro.
"Cosa? Che significa?".
"Ti spiegheremo tutto in auto, credo di aver preso tutto. Stavamo per venire a cercarti, su andiamo".
"Io non vado da nessuna parte", sbotto strattonando la presa di mia madre sul mio braccio. "Che diavolo sta succedendo?".
"Sophia ti...".
"No, ora". Incrocio le braccia al petto. "E non ho intenzione di andare da nessuna parte con voi, tanto per cominciare".
"Dove sei stata in questi giorni?". Urla mio padre mentre mia madre se ne esce con un sussurrato dopo Tom, dopo.
"Non ti riguarda", ringhio. "Ma voglio sapere il motivo per cui....".
"Dove ti ha portato quel pezzo di merda, eh?".
"Tom", urla mia madre. "Devi calmarti, l'importante è che lei ora sia qui. Non possiamo perdere altro tempo".
"So tutto", mento ignorando mia madre, non lascerò mai questa città. Noto gli occhi di mio padre spalancarsi per poi incupirsi tutto d'un tratto.
"Che stai dicendo?". Serra la mascella, non credo di averlo mai visto tanto arrabbiato e preoccupato. Qualcosa non torna e devo giocarmi le carte giuste.
"Ti ho visto", sputo. "Cosa fate lì dentro?". Mia madre si porta una mano davanti la bocca mentre mio padre, sembra sul punto di svenire, almeno per un momento.
"È stato lui", scuote il capo ridacchiando amaramente. "È stato lui, ho fatto di tutto per quel grandissimo...".
"Tom", urla ancora mia madre, afferrando mio padre per un braccio. "Non ha più importanza, lui è qui. Non possiamo...".
"Andiamo".
"Lasciami", urlo non appena mio padre mi afferra per un braccio mentre con l'altro tiene la mia valigia. "Levami le mani di dosso", provo a tirargli un calcio mentre mi trascina verso le scale. Mia madre ci segue, penso stia piangendo ma non le credo. Non più. Continuo ad urlare, a dimenarmi e a un certo punto urlo persino il nome di Alex, ma so che lui non c'è, che non può aiutarmi e che forse non lo rivedrò mai più. Non so quali siano le intenzioni di mio padre, non ho mai avuto paura di lui come ora.
"Sei un bastardo".
"Sali in macchina", la sblocca ed è in quell'attimo che faccio qualcosa di cui, per ora, non mi pento. Gli sferro un pugno in pieno viso che lo fa barcollare all'indietro. Non se lo aspettava e lo sguardo che mi riserva subito dopo, ne è la conferma.
"Sophia", urla non appena mi metto a correre lungo la strada principale, mi segue. È veloce e molto probabilmente la mia fuga finirà prima ancora di iniziare, poi lo vedo e credo di non averlo mai desiderato così tanto. La sua moto procede tranquilla nella mia direzione, completamente ignaro di quello che sta accadendo, di quello che mi sta accadendo.
"Alex", urlo e lui frena in tempo pochi millimetri prima di investimi.
"Che cazzo...Sophia", spalanca gli occhi non appena mi riconosce. "Che stai...".
"Dobbiamo andare Alex, dobbiamo andare", salgo alle sue spalle. È giustamente confuso e mio padre sta per raggiungerci.
"Vuole portarmi via, ti prego...ti prego scappiamo". Alza lo sguardo, due, al massimo tre metri ci separano da mio padre. Non passa un solo secondo in più, prima che la sua moto ruggisca e il suo pugno stringa il manubrio con tutta la forza che ha in corpo.
"Reggiti", stride fra i denti, poi parte lasciandoci dietro troppe cose che non ci hanno mai capiti.

"Dove..perché ti sei fermato?".
"Tranquilla, non ci stanno seguendo".
"Sicuro?".
"Sicuro", sospira togliendo il casco.
Siamo in un vicolo ceco, totalmente buio se non per i fari della sua moto.
"Cos'è successo?". Si volta facendomi cenno di scendere. Mi tremano le gambe ma lo faccio, devo sembrargli una pazza, eppure non ha esitato per un solo attimo a fare quello che ha fatto.
"Sono tornata a casa e loro erano lì...fra gli scatoloni, valigie fatte e continuavano a dire che dovevamo andarcene".
"Andarvene?". Spegne il motore. Tutto troppo buio.
"Puoi riaccendere i fari per favore?". Sospira ma lo fa.
"Allora?". Vedo i suoi lineamenti indurirsi. "Che vuol dire?".
"Non lo so", scuoto il capo. "Erano come impazziti, mio padre continuava ad accusarti di avermi portata via in questi giorni, mia madre ripeteva che qualcuno era tornato e che dovevamo andarvene via il prima possibile. Ma io.....io non voglio andarmene". Sussurro alla fine.
"Non andrai da nessuna parte", asserisce deciso. "Non con loro almeno". Serra la mascella.
"Gli ho detto che so tutto, che l'ho visto".
"Cazzo Sophia", sgrana gli occhi.
"Gli ho detto che tu non centri nulla. Scusami, non volevo causarti problemi, solo che....temevo che...che lui mi portasse via". Mi guarda e noto i suoi lineamenti addolcirsi per un attimo.
"Lasciamo stare, questo non è un problema ora".
"Non posso tornare a casa", sospiro. "Possiamo andare da Micol".
"No, mio padre ha scoperto...l'ha scoperto".
"Oddio, e ora? Cosa gli succederà?".
"Nulla, Micol non ha nulla da temere ma sarebbe il primo posto dove verrebbe a cercarti sapendo che stai con me e i tuoi, non devono scoprire quel posto". Stringe le mani in due pugni. Troppi tasselli mancanti, troppi.
"Quindi, dove vado?".
"Dove andiamo, vorrai dire". Si passa una mano fra i capelli. "Sali".
"Ti ho messo nei guai, vero?". Non risponde. "Mi dispiace, puoi anche....lasciarmi qui, troverò un modo. Non voglio crearti...".
"Sophia, sali e non dire cazzate", sbotta.
"Sembri arrabbiato". Sbuffo. "Lo sembri sempre ma...forse ti sei sentito costretto ad aiutarmi e ora...".
"Cosa? Pensi che mi sia pentito?". Assottiglia lo sguardo.
"Io...non lo so", ammetto. Le ultime vicende fra noi non mi hanno mai dato alcun tipo di certezza.
Rilascia un lungo respiro stringendo le mani sul manubrio.
"Sali, non fartelo ripetere", mormora con un fil di voce. Sospiro, non posso negare di aver paura e di sentirmi in colpa ma quando si gira a guardarmi, non credo di aver altro tempo per riflettere.
"Ok", poggio una mano sulla sua spalla aiutandomi a salire dietro di lui. Circondo il suo busto con le braccia, mette in moto e prosegue chissà dove. Dovrei aver paura, dovrei averne tanta. Non so quando rivedrò i miei genitori, non so quando rivedrò i miei amici, ne se ritornerò mai qui, ma sembra non importarmene. Sembra che l'unica cosa a cui riesca a pensare ora, è il fatto che sono con lui, con Alex.
Ovunque mi stia portando, è lontano. È più di un'ora che guida e sono più che sicura di esserci allontanati di molto da Londra.
Chesham, dice il cartello. Non sono mai stata in questo posto e in tutta onestà, non ero neppure a conoscenza della sua esistenza. È un posto suggestivo, assolutamente diverso dalla Londra città metropolitana a cui sono abituata. Le case bianche e marroni mi ricordano tanto un film che vedevo da piccola, proprio con Alex, di cui però non ricordo il nome. Ricordo, addirittura, che una volta gli dissi che un giorno sarei voluta andare a vivere proprio in una di quelle case.
"Siamo arrivati", sgrano gli occhi quando si ferma al fianco di una di queste. Sembra non ci sia nessuno dentro.
"Ma....dove siamo, Alex?".
"Chesham". Spegne il motore e mi fa cenno di scendere prima di lui.
"Si, l'ho letto ma.....come conosci questo posto?".
"Lo conosco da tanti anni". Posa il casco e stranamente non lega la sua moto a nessun palo con tre catenacci.
"Ma io non ti chiesto questo", dico seguendolo verso la porta di questa casa così carina. Sembra davvero di essere in un film.
Si ferma, afferrando una chiave dalla tasca dei suoi jeans, poi mi guarda. "Ci sarà tempo per le domande stanotte, entra", apre la porta e non posso far altro che seguirlo, anche stavolta.

La cura [H.S.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora