Capitolo 27

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Occhi dentro occhi. Le parole sono bloccate sul fondo della gola, il suo sguardo così profondo, così attento non aiuta affatto.
"Ricambiare il favore", assottiglio lo sguardo imponendomi una sicurezza che sicuramente ora non riesco ad avere. Mi imbarazza questa vicinanza, ma l'adoro al contempo. Non vorrei essere in nessun altro posto, non vorrei aggiungere neppure un millimetro di distanza fra di noi ora.
"Pensi davvero che mi faccia trascinare nel fango come un bambino?". Assottiglia lo sguardo, sfidandomi palesemente. Se c'è una cosa che ancora riesco a riconoscere in lui, è proprio questo.
"Trascinare forse no", sussurro mantenendo lo sguardo fisso nel suo mentre con una mano raccolgo un po' di fango da terra. "Ma ricoprire si", non gli lascio il tempo di reagire stavolta mentre gli spalmo sui capelli la mia piccola vendetta che, sono sicura, non rimarrà impunita.
"Ma che...". Scoppio a ridere tirandomi su prima che possa prendermi e farmela pagare. "Vieni subito qui", sento che urla alle mie spalle mentre cerca di raggiungermi. Non che questa sia un'impresa impossibile per lui, ma la sua fissazione per i capelli mi fa sperare di averlo quantomeno sconvolto abbastanza da rallentarlo. "Se ti prendo...".
Rido così tanto che mi fa male la pancia, continuo a correre andandomi a nascondere in un tubo di plastica dove una volta, Alex provò a sbirciare sotto la mia gonna. Avevamo sette anni, ma quel ricordo è fin troppo vivido nella mia mente. Mi appiattisco contro la superficie ora bucherellata in qualche punto, trattenendo le risate quando lo sento richiamarmi nel peggiore dei modi.
Sophy. È passato troppo tempo dall'ultima volta in cui mi ha chiamata così. Quello che ho sentito è stato strano. Per quei pochi secondi nei quali mi ha guardato, ho pensato che tutto fosse tornato al suo posto, ma non è così.
Per ora voglio godermi il momento, voglio divertirmi con lui e spero che nessuno dei due rovini qualcosa. Sento i suoi passi a poca distanza da me, non pensavo neppure che si fosse messo a cercarmi.
"Ok Sophia, hai tre secondi per uscire fuori", sbuffa, eppure non credo che tutto questo lo infastidisca come vuol dare a credere. Alex non è un tipo che si fa molti problemi ad andarsene quando vuole. "Uno...", continua a camminare calpestando l'erba secca. Sto morendo di caldo e la felpa che sto indossando non fa altro che peggiorare la situazione. "Due...", continua ma non sento i suoi passi. Mi sporgo in avanti, stendendomi sulla pancia mentre lascio le gambe indietro. "Tre", urlo quando qualcosa afferra la mia caviglia trascinandomi verso l'altra uscita di quel maledetto cubo. In pochi secondi mi ritrovo a pancia all'aria, ribaltata come un involtino primavera. Spalanco gli occhi quando una nube di fumo mi colpisce in pieno viso facendomi tossire. Le sue mani ora sono ai lati della mia testa, una sigaretta fra le labbra e quel ghigno arrogante che vorrei tanto togliergli con un bel pugno.
"Infantile", mormora, piegandosi sulle ginocchia. Mi metto a sedere, sperando di non essere arrossita per quei pochi secondi nei quali il suo corpo ha sovrastato il mio ma senza mai toccarlo. Sembra quasi che stesse attento proprio a questo e non capisco perché io, invece, bramassi quel tocco più di ogni altra cosa al mondo.
Presso le labbra fra loro quando noto in che condizione versano i suoi capelli.
"Devo ricordarti che hai iniziato tu?", dico passando una mano fra i miei che sicuramente non saranno da meno.
"Ricordo molto bene quello che faccio", sussurra prima di tendermi la mano. L'afferro e non appena stringe le sue dita fra le mie per aiutarmi ad alzare, una scia di brividi percorre tutta la mia schiena fino a colpire entrambe le mie braccia e subito sento la sua mancanza, quando mi lascia andare. Troppo in fretta, come se toccarmi, gli provocasse dolore.
"Mh, grazie", mormoro abbassando lo sguardo. Mi sento improvvisamente timida, di certo non sono più abituata a ridere e star bene con lui, ma imparerei di nuovo a farlo fino a quando tutto possa tornare come prima, anzi meglio.
"Almeno hai finito di lagnarti come una bambina", ridacchia e io non posso fare a meno di tirargli un altro pugno, stavolta in petto ma che non lo muove ugualmente di un sol millimetro.
"Sembri brava", inclina il capo osservandomi come se fossi una sorta di topolino da laboratorio.
"Sono brava", affermo decisa. "E se non vuoi che te lo dimostri seduta stante, non prendermi in giro", incrocio le braccia al petto.
"Non mi permetterei mai", alza le mani in segno di resa, ridacchiando poi. "Scherzavo, scherzavo", i suoi occhi brillano. Hanno una luce diversa persino quando lo colpisco di nuovo. "Non puoi allenarti su di me", ghigna facendomi bloccare all'istante. "Non oggi almeno", aggiunge.
"Vuoi allenarti con me un giorno?". Chiedo pur sapendo che non accetterà mai, e forse è meglio. La box caccia un lato di me che lui non può conoscere, per questo quando risponde, mi sorprendo e trasalisco.
"Vedremo". Sorride facendomi sciogliere. Non ero pronta a questo quando stamattina l'ho visto con Natalie, non ero pronta dopo la notte scorsa e non lo ero dopo aver pianto per lui non più di mezz'ora fa.
"Non vorrei mai farti del male", dico. Una frase a doppio senso che spero non colga.
"Tranquilla", avvicina il suo viso al mio facendomi trattenere il respiro. "Cercherò di non fartene anch'io", sussurra serio e con le dita sposta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Schiudo le labbra impreparata a questa sua reazione, così dolce, così diversa da tutte le altre. Poi si alza. "Devo andare al locale", mi informa, ma non l'ha mai fatto prima. "Ma credo di dover passare prima a casa", mi guarda male, ma è in quelle condizioni è poco credibile. "Penso dovresti farlo anche tu".
"Già", gli sorrido. Non riesco a trattenermi.
"Alza le chiappe allora", batte le mani fra loro incamminandosi verso l'uscita di quel parco che in qualche modo, oggi, è rinato.
"La sporcheremo", dico mentre fissa la sua moto come se fosse una bambina alla quale non vorrebbe mai far del male.
"Già", sospira fra i denti. "Ma la laverai tu", mi guarda alzando un angolo delle sue labbra.
"E perché mai?". Mi acciglio. "È la tua moto".
"Che tu sporcherai", il suo sguardo scende lungo il mio corpo, facendomi sentire nuda, completamente esposta e non so da quale parte nascosta del mio cervello, io riesca a notare questa cosa.
"Credo che mi convenga tornarmene a piedi allora", ridacchio.
"Questo non cambierebbe il fatto che sarai tu a lavarla".
"È un ordine per caso?". Incrocio le braccia al petto guardandolo di sottecchi.
"È il minimo che tu possa fare dopo avermi trascinato in quella merda", fa una smorfia quando cerca di liberare i suoi capelli da altro fango. È adorabile in quell'espressione corrucciata con tanto di broncio.
"Si, certo", alzo gli occhi al cielo. "Allora mi sa che lo accetto questo passaggio".
"Ma prego signorina", apre le braccia teatralmente e giurerei di vedere tanta sofferenza nel suo sguardo quando con la scarpa sporco la ruota posteriore.
Gli uomini!
"Grazie", sorrido soddisfatta. Pensavo che questo potesse essere uno dei giorni più brutti della mia vita, ed è strano e sensazionale al contempo come tutto possa cambiare solo grazie ad una persona, solo una.

La cura [H.S.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora