Capitolo 63

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Sophia's pov
Le porte dell'ascensore si aprono davanti i miei occhi e per me è strano. Sono dieci giorni che non lascio quella stanza bianca, dieci giorni che non parlo con nessuno al di fuori di mio padre. Dieci giorni che vengo sottoposta ad ogni tipo di esame possibile. Mi fanno male le braccia, le mie vene chiedono pietà. Speravo che quel momento della mia vita non tornasse più, a quanto pare mi sbagliavo. Tuttavia stavolta è diverso, stavolta non so perché sta accadendo tutto questo, non so perché sono rinchiusa in questa clinica come se fossi pazza, non so perché mi hanno portato via da Londra in questo modo. Mi manca il respiro ogni volta che penso a lui, ogni volta che penso a quale sarà stata la sua reazione. Mio padre dice che non gliene sarà importato così tanto, si sono picchiati ma poi è andato via senza chiedere nulla. Io non ci credo, non posso crederci, anche se le cose fra noi erano diventate difficili.
"Da questa parte", sussurra un uomo in camice di cui non conosco neppure il nome. Non ho idea di dove siamo, so solo che il viaggio col il jet privato di mio padre, è durato parecchio. Non pensavo avesse tutti questi soldi, a quanto pare, mi sbagliavo anche su questo. Mi lascio condurre in un'altra stanza dove c'è mio padre, mia madre ed un uomo sempre in camice. Ho smesso di urlare contro i miei solo due giorni fa, quando sono stata male fisicamente, quando ho pensato davvero di star morendo. Un dolore lancinante mi ha colpito in petto, un dolore che non avevo mai provato prima d'ora. Ho avuto paura, ho desiderato con tutta me stessa un telefono per poterlo chiamare. Tutto inutile, sono completamente isolata dal mondo in chissà quale parte del mondo.
"Ciao Sophia", quell'uomo mi sorride, io neppure parlo. Ho smesso di farlo e non voglio farlo. "Come ti senti oggi?". Guardo tutti sperando possano capire quanto lì disprezzi. "Bene", accenna un sorriso tirato. "Cercherò di capirlo da solo". E non mi oppongo. Non mi oppongo quando mi fanno stendere sul lettino e mi scoprono il petto per controllare la cicatrice, il battito e tutte le stronzate a cui purtroppo mi sto riabituando. Non voglio arrendermi, ma sapere di essere così lontana da Alex, non mi da motivi per combattere. Forse lui è andato avanti, forse questa è la fatidica volta in un sarei dovuta uscire dalla sua vita per sempre. Tanti forse che non trovano mai un fondo di verità. Tanto dolore che non trova mai un grammo di pace. Chiudo gli occhi mentre continuano a studiarmi come un raro caso umano. Mio padre sa che io so, sa quanto lo odio per aver fatto del male al figlio di Diego. Stranamente non ho paura di quell'uomo, lo comprendo. Quello che non comprendo, è l'uomo che per tanti anni ho chiamato papà e che ora, non riconosco affatto.
"Tom", la voce del dottore mi riscuote dai miei pensieri.
"Che succede?". Si avvicina, io distolgo lo sguardo.
"Qualcosa non va", il suo tono preoccupa anche me. È diverso, completamente diverso da quello che ho sempre sentito anche quando mi hanno comunicato del trapianto.
"Cosa non va?". Urla mio padre, sento mia madre sussultare. Vorrei che andassero tutti via.
"Il cuore...io, non so, non lo capisco".
"Che vuol dire?". Mio padre accarezza i miei capelli ma mi scanso. Odio il suo contatto ora come ora.
"Non è facile dirlo così, dovrei analizzarlo da vicino".
"Assolutamente no", sbotta mia madre venendo al mio fianco. "Mia figlia non si tocca".
"Calmati Gabriella", mio padre l'abbraccia e mi chiedo con che coraggio dal momento che ha un'altra. "Non le verrà fatto nulla".
"Dicevo", il dottore prende un colpo di tosse e mi guarda. "C'è qualcosa di fortemente anomalo nel cuore che le è stato trapiantato".
"Ma sta bene", continua mia madre.
"Si, ora si", replica lui. Vorrei urlare che non è affatto vero, che sto malissimo, che vorrei fuggire, ma sarebbe inutile. "Questo non toglie che le cose non stanno come dovrebbero stare normalmente".
"Beh, nulla è mai stato normale nella nostra vita".
"Gabriella", mio padre la guarda male intimandole silenziosamente di tacere. È così che funziona.
"Capisco", sussurra quell'uomo facendo una smorfia. Credo che sappia qualcosa e che non lo condivida affatto. "Ma così non riusciremo a capire granché".
"A cosa sta pensando?". Domanda mio padre.
"Ad un nuovo trapianto", scatto a sedere.
"Levatevi", urlo. Mio padre mi afferra per un braccio ma riesco a liberarmi dalla sua presa. "Non sono un tuo cazzo di esperimento da laboratorio", sputo. Esco da quella stanza non sapendo dove andare. Questo posto sembra un fottuto labirinto. Mi rintano nella prima stanza libera che trovo lungo il percorso. Sento di impazzire, sento di non poter più controllare tutto questo, sento di dover far qualcosa. Sento che è arrivata l'ora di reagire e provare a scappare da qui.

La cura [H.S.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora