Capitolo 26

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Sbatto le palpebre. Non è un sogno, non è un incubo. Alex mi sta guardando, mi sta letteralmente fissando dalla sua finestra senza un minimo di pudore, fregandosene di essere stato colto in flagrante. Non gli importa di nulla. Mi avvicino alla mia finestra stringendo l'asciugamano fra le dita.
"Mi stavi spiando?". Sussurro sperando di non svegliare nessuno. È una domanda scomoda, dato che io lo faccio da dieci anni ormai e non perde tempo nel farmelo notare.
"Più o meno quello che fai tu", replica con quel suo fare arrogante, sicuro di se. Fin troppo presuntuoso. Ma ha ragione da vendere. Sono dieci anni che fisso la sua finestra e mi chiedo come abbia fatto a scoprirlo. Non l'apriva mai.
"Più o meno", scrollo le spalle, passandomi una ciocca di capelli, ancora bagnati, dietro l'orecchio.
"Nottata pesante?". Chiede quasi come se fosse incazzato. Ma per cosa poi?
"C'era parecchia gente stasera". Rispondo un po' a disagio. Non so mai cosa gli prende. Non capisco a cosa siano dovuti i suoi continui sbalzi d'umore.
"Immagino". Pressa le labbra fra loro dopo aver pronunciato questa parola molto lentamente.
"E tu cosa hai fatto stasera?". Poggio le ginocchia sul materasso e i gomiti sul davanzale della finestra. Neanche nei miei sogni più nascosti avrei immaginato di poter parlare con lui così. Come quando eravamo solo dei bambini.
"Sono uscito", discreto, senza mai andare oltre, ma io si. Io non ho di certo paura di fare il passo più lungo della gamba.
"E dove sei andato?".
"È un interrogatorio questo?". Inarca un sopracciglio.
"Si chiama conversare". Sospiro.
"Non stiamo conversando", la sua espressione è buffa ora. Sembra quasi che neppure conosca il significato di questa parola, ma non ne sarei sorpresa.
"A me sembra di sì". Sghignazzo.
"Beh, ti sbagli", ribatte piccato.
"E cosa stiamo facendo allora?". Inarco un sopracciglio.
"Nulla", apatico di nuovo. "Parlavi del tuo lavoro".
"Ho solo detto che c'era parecchia gente".
"Troppa direi", sussurra ma io riesco a sentirlo ugualmente.
"Che vuoi dire?". Mi acciglio.
"Nulla". Serra la mascella. "In ogni caso, stasera non puoi lamentarti di essere tornata a casa sola soletta".
"Cosa?".
"La compagnia non ti mancava di certo". Aggiunge, senza neppure guardarmi.
"Aspetta ma...eri lì?".
"Li dove?". Ora mi guarda male.
"Dove lavoro", sussurro incerta. Non vorrei fare la figura della scema, ma quello che ha detto mi confonde.
"Te l'ho detto. Sono uscito stasera".
"E mi hai visto?".
"Passavo di lì", scrolla le spalle mentre si accende una sigaretta.
"Ma non mi hai salutata". È la cosa più stupida che potessi dire e non so neppure perché io l'abbia detta. Perché avrebbe dovuto salutarmi, infondo?
"Eri in compagnia, non volevo disturbare".
"Come se altre volte ti fossi preso il disturbo di salutarmi...aspetta...". Prima che possa rendermene conto, la mia boccaccia, continua a sparlare. "Perché mi sembri infastidito? Quell'uomo è...", poi mi blocco. "Beh, non sono affari tuoi".
"Mai detto il contrario", sputa stringendo quella sigaretta così forte da spezzarla. "Che merda", impreca gettandola giù dalla finestra. Sembra più antipatico, insopportabile e lunatico del solito, ma sopratutto nervoso. Per molto tempo ho sempre sostenuto la sua grande abilità nel trattenere ogni sua reazione.
"Già, che spreco. Ne hai una anche per me?". Devo ammettere di aver fumato qualche volta. So che non è il massimo per una che era malata di cuore ma quando ti importa poco di tutto, persino di te stessa, uno strappo alla regola ci sta tutto.
Mi lancia un'occhiataccia truce.
"Che c'è?". Spalanco le braccia. "Ti ho chiesto una sigaretta mica una striscia di coca".
"Da quando frequenti quelli che hanno l'età di tuo padre?".
"Prego?".
"Hai capito", se ne accende un'altra non prendendo minimamente in considerazione la mia richiesta.
"Pensi che...oddio tu pensi che...", scoppio a ridere e non credo che riuscirò a terminare questa frase.
"Io non penso niente", sbotta infastidito dalla mia reazione. "Era solo una domanda", aggiunge mordendosi il labbro con forza. La sua reazione mi confonde, le sue parole, le sue domande. Non si è mai interessato di me in questo modo, sempre se possiamo parlare di interesse in questo caso. Non vorrei dirglielo, non voglio che lui ottenga tutto e subito.
"Una vecchia conoscenza, nulla di che". Sento i suoi occhi su di me mentre mi passo le dita fra i capelli. "Come mai ancora sveglio?".
"E tu? Non hai scuola domani?". Scocca le dita fra loro, producendo uno strano rumore. Come se le sue ossa si fossero rotte e poi aggiustante.
"Anche tu hai scuola domani".
"No, non ho scuola domani", dice piano non perdendo nessun mio movimento. È imbarazzante e bello al contempo essere fissata da lui e mi rendo conto che alle tre del mattino, non dovrei pensare a cose simili. In realtà non dovrei pensarci mai.
"Un'altra visita al tuo amico medico pazzo?". Ridacchio, lui mi fulmina con lo sguardo.
"No", solo questo. Come sempre. "Buonanotte Sophia", dice all'improvviso. Non voglio che vada via, non così. Credo sia incazzato e credo di esserne io la causa.
"Aspetta...perché vai già via?". Sussurro rendendomi solo più ridicola.
"Sono le tre", non c'è alcuna emozione nel suo tono. Il suo sguardo è freddo come il ghiaccio. È questo il trattamento che mi riserva quando penso di avergli fatto qualcosa, ma cosa? Per ora, sono solo mie supposizioni. Sensazioni.
"Ed hai sonno?".
"Si", mente. Non gli credo affatto.
"Capisco", mormoro cercando il suo sguardo ma non ricambia. Chiude la finestra senza aggiunge altro, neppure un saluto. Solo un altro.

La cura [H.S.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora