Capitolo 49: Libertà

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Il soldato fantoccio trascinò con forza Laraine nelle segrete di Benicassia. Fin da subito si presentò come un luogo lugubre e quasi privo di una fonte di luce. Qualcosa di umido e freddo le bagnò i piedi; Laraine fissò a terra e vide che il pavimento di pietra su cui stavano camminando era quasi interamente allagato dall'acqua.

"Questo posto non mi piace per niente."

Il suoi pensieri vennero interrotti da un cigolio ferruginoso: il soldato fantoccio aprì la grata di una cella e vi spinse dentro Laraine con tale violenza che la ragazza cadde a terra centrando una pozza d'acqua. Era così fredda da farle accapponare la pelle. Le vennero i brividi. Si rimise seduta voltandosi verso il carceriere; il soldato non la degnò di uno sguardo, richiuse la grata della cella e si dileguò.

"Allora è qui che rinchiudono i prigionieri."

Con lo sguardo cercò di mettere a fuoco che cosa ci fosse al di là delle grate. Vide altre persone nella sua stessa situazione; se ne stavano però raggomitolati a terra, con le vesti fradice e infreddoliti. Alcuni tossivano, altri ormai non davano più segni di vita.

"L'aria è così malsana che ammalarsi è un gioco da ragazzi."

Raccolse poi da terra dell'acqua con il palmo della mano e provò ad annusarla. "È contaminata".

Si spiegavano così numerosi interrogativi che le erano cominciati a sorgere mentre osservava chi si trovava nella sua stessa condizione. "Senza cibo né acqua potabile, spinti dalla disperazione, bevono quella che sgorga da queste rocce. Segue mal di stomaco, vomito, diarrea, il deperimento progredisce lasciando il prigioniero privo di forze, in attesa della morte che sopraggiunge lenta e dolorosa. È disumano."

Si rialzò alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarla a stare all'asciutto, ma senza risultato. "Una tortura ancora più crudele il fatto che tutta questa gente non abbia degli abiti asciutti e debba stare a terra all'addiaccio". Rassegnata, si risedette. L'acqua le arrivava alla cintola ma non se ne curò più. C'era una sentore che, nel frattempo, aveva cominciato a darle pensiero.

"Morte."

Era questo ciò che aveva cominciato a percepire vicino a lei. Una sensazione che non aveva mai provato prima e che la metteva a disagio, più degli sguardi dei prigionieri che, come lupi affamati, davanti a una succulenta preda, puntavano alle sue forme messe in evidenza dalle sue vesti bagnate. Non era libidine, forse l'avrebbero davvero mangiata se avessero potuto.

"Ciò che sento, è una sgradevole percezione di morte."

La sua attenzione fu attratta da un uomo a terra, all'interno della cella adiacente alla sua. Aveva le mani legate dietro la schiena e il giovane volto pieno di lividi. Non era vestito di stracci come la maggior parte dei carcerati, ma da vesti di buona fattura. Erano sgualcite e strappate in diversi punti, dove si intravedevano delle ferite, ma del sangue nemmeno l'ombra.

Laraine non ebbe alcun dubbio: quel sentore di morte proveniva da lui, ma quell'uomo era ancora in vita.

Dopo un momento d'incertezza, provò a chiamarlo. «Riesci a sentirmi?» Gli chiese protraendosi un po' verso di lui.

L'uomo non le rispose eppure Laraine era certa fosse sveglio.

«Rispondetemi, per favore.» Insistette.

L'uomo aprì gli occhi, squadrò Laraine per qualche istante per poi chiederle. «Che cosa vuoi da me? Lasciami morire in pace.»

«Mi chiamo Celia e come vedi anch'io sono stata rinchiusa in una di queste celle.» rispose in modo amichevole la ragazza. «E voi?»

«Aleksandar.» Seguì un momento di pausa, poi aggiunse. «Per quale motivo una come te è finita nel peggior posto che si possa trovare sulla faccia della terra? Sai, difficilmente da qui si esce vivi.»

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