Capitolo 50

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Degli alberi imponenti contornano il viale, ricoperto da sassolini che conducono all'entrata di questa graziosa villetta color panna. Ci sono varie piante sul pianerottolo e un dondolo in legno vicino la porta di ingresso. Alzo di poco il viso, scorgendo il tetto.

Il giardino, anche se non c'è molta luce che lo illumini, se non per vari lampioni che si alternano ai lati del viale, è paradisiaco e mi sembra di scorgere persino un'immensa piscina.

La mia bocca è semiaperta e Cameron sembra accorgersene, visto il ghigno che ha disegnato sul viso.

«Ma sei sicuro di non aver sbagliato indirizzo?» gli domando improvvisamente, fissando il suo sorriso.

«Sì, certo... in fin dei conti tutti sbagliano il proprio indirizzo di casa per infiltrarsi in un'altra e casualmente avere pure le chiavi» inizia a ridere, ma non più di tanto per via del dolore che gli provoca la ferita che ha sul labbro.

«Andiamo, così ti medico le ferite» lo guardo con espressione preoccupata.

«No tranquilla, non ce n'è bisogno, sto bene» cerca di rassicurarmi, ma la sua voce, sfumata da gemiti di dolore, lo tradisce.

«Già in macchina ti avevo detto di non fare storie, quindi adesso ti stai zitto e ti fai medicare» il mio tono è autoritario e duro. Alza gli occhi al cielo, per poi prendere la chiave nella tasca dei jeans e infilarla nella serratura.

Apre la porta, per rivelare così l'interno della casa. Inizialmente è tutto buio, ma non appena preme l'interruttore, il lampadario si accende, per illuminare tutto ciò che ci circonda e rivelando così lo splendore e la finezza di questa enorme stanza: le pareti sono color panna, simile all'esterno della casa; il pavimento è ricoperto dal parquet e ci sono due divani beige al centro, con un tavolino in vetro con sopra un piccolo vaso.

«È bellissima» esclamo, mentre Cameron si butta a peso morto sul divano, provocando un tonfo.

«Ma non c'è nessuno?» domando andando di fianco a lui.

«No, mia madre è in viaggio per lavoro» alza le spalle, ma in tutto ciò non nomina il padre e qua mi riaffiorano sia le parole di Nash, che le molteplici immagini dei sogni fatti su Cameron, ma non faccio domande, anche se la curiosità mi divora viva.

«Tutto apposto?» mi chiede Cameron, accarezzandomi la schiena.

«Sì, perché?».

«Improvvisamente sei diventata pallida» mi guarda con espressione preoccupata.

«Sarà la stanchezza» tento con la prima scusa che mi passa per la mente, ma lui sembra non crederci, però per fortuna lascia perdere e si siede sul divano, mettendo le braccia dietro il collo e le gambe posate sul tavolino.

«Dai Cam, andiamo che ti medico le ferite» lo tiro da un braccio.

«Emily, sto bene» sbraita come un bambino.

Lo fulmino con lo sguardo, facendogli alzare gli occhi con uno sbuffo.

Si alza in piedi e si dirige verso le scale, mentre io lo seguo guardandomi intorno, ancora meravigliata per questa stupenda casa. Noto che ci sono altre foto di Cameron e Sierra e poi scorgo una foto di questi ultimi due con una donna e un uomo, ma la cosa che mi attira di più è lo sguardo di Cameron: spento e vuoto e il sorriso è quasi impercettibile.

Arriviamo fino alla fine di un lungo corridoio, per poi entrare nel bagno.

Cameron prende la valigetta di primo soccorso e me la porge, mentre lui si siede comodamente. La apro e prendo un po' di ovatta per intingerla nell'alcol e passarla sul labbro. Sento dei brividi percorrermi tutto il corpo e ricordo ancora adesso come le nostre labbra combaciavano perfettamente in una lenta danza passionale, quella notte passata.

«Erano così delicate...» sussurra Cameron, facendomi inarcare un sopracciglio.

«Il modo in cui le muovevi, la loro delicatezza che rammarico ogni secondo da quel giorno» mi guarda fisso negli occhi, ma io continuo a medicarlo, senza proferire alcuna parola.

«I tuoi occhi erano incatenati ai miei, brillavano sotto la luna e sai che cosa ho visto al loro interno?» mi domanda ed io per un attimo lo guardo dritto negli occhi, così continua «una scintilla. Sì, proprio quella e mi è rimasta impressa e ogni notte mi riaffiora sempre nella mente. Mi addormento con il desiderio e la speranza di rivederla un'altra volta» conclude, guardandomi dritta negli occhi. Prendo l'ovatta e la butto nel secchio, esclamando «ho finito».

Per quanto mi costi ammetterlo, io e lui non possiamo stare insieme e se dovessi dirgli tutto ciò che provo quando sto con lui, complicherei soltanto le cose, portandoci a soffrire più di quanto stiamo già facendo adesso.

«Ti devo far vedere una cosa» esulta improvvisamente, alzandosi in piedi e prendendo saldamente la mia mano, per condurmi fuori d bagno.

Non appena arriviamo a metà corridoio, si ferma, per poi prendere una sedia e salirci sopra, tirando una maniglia sul soffitto che rivela una scaletta.

Saliamo mano nella mano, arrivando alla soffitta, ma prima ancora che io possa fare altre domande, apre una porta e tutto ciò che mi si presenta davanti mi fa rimanere a bocca aperta...

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