9 Sloan

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Mi giro sul fianco destro ancora una volta cercando una posizione comoda per dormire ma forse non dipende dai crampi, non da quelli che sento alla gamba. Mi metto supina e scosto in malo modo il piumone tirando fuori le braccia e sbuffando frustrata. Volto appena la testa verso il comodino per rendermi conto che è l’una di notte e che a giudicare dalla compressione che sento sul torace, neanche stanotte riuscirò a dormire. Forse non avrei dovuto bere tutto quel vino, forse non avrei dovuto chiedergli di restare, forse non avrei dovuto chiedergli di quella notte. Non che ci pensi ogni giorno, sia chiaro, ma quando lui è qui e quando mi lascio andare a un bicchiere di troppo, quando mi guarda con i suoi occhi scuri e blindati, quando respira in mia presenza… Non posso fare a meno di tornare indietro nel tempo, a quando Reid Johnston mi ha fatto capire in modo chiaro e definitivo che io non ero nei suoi piani come lui era nei miei. Mi volto di nuovo di fianco infilando una mano sotto al cuscino e solo allora mi accorgo che Sam è in piedi davanti alla porta della mia stanza. Mi sollevo e accendo la lampada sul comodino. “Non riesco a dormire” dice, stringendo tra le braccia l’unicorno che di solito se ne sta sulla mensola nella sua stanza insieme ad Agnes e ai Minions con le divise da galeotti. “Non stai bene?” Scrolla le spalle. “Non lo so.” “Vuoi provare a stenderti un po’ con me?” “Magari solo per qualche minuto.” “Certo.” Scosto il piumone mentre lei s’infila sotto le coperte. Non le piace mostrarsi debole, non le piace essere una bambina. Vuole essere forte, indipendente, vuole aiutarmi e talvolta consolarmi. Io invece vorrei solo che avesse dieci anni e che dormisse con il suo stupido unicorno tutte le notti. Mi stendo accanto a lei e le accarezzo i capelli sparsi sul cuscino. “Vuoi parlarmene?” “Solo se me ne parli anche tu.” “Io?” Chiedo quasi divertita. “E di cosa dovrei parlarti?” “Del motivo per cui non riesci a dormire.” “Oh sai, il lavoro, le cose da fare domani, i clienti impossibili.” Le sorrido e poi provo a tastare il terreno. “È per quello che ti hanno detto a scuola?” Sospira. “Non lo so.” “È comprensibile starci male, non devi nasconderlo per me.” “Ma se io dico qualcosa, poi sei tu a starci male.” “Non è qualcosa di cui devi preoccuparti, tesoro.” “Era importante.” “Tutto quello che fai lo è.” “Credi che non lo sappia? Ci sono i miei test appesi al frigorifero e non ho preso neanche il massimo del punteggio.” “Questo perché io sono fiera di te.” Resta in silenzio per alcuni secondi, poi riprende cauta. “Lui non lo è?” Sam ha partecipato a una gara di dibattito con le scuole delle città della contea. Era la leader del suo gruppo e si sono aggiudicati il primo posto. Tutti i bambini avevano i genitori lì con loro durante la premiazione, lei aveva solo me. Qualcuno l’ha presa in giro per il fatto che non ha un padre, l’ha chiamata in un modo poco carino e lei ha cercato di non dimostrare che ci era rimasta male. So che lo ha fatto solo per me, senza sapere che la cosa che mi fa stare male davvero, è vederla nascondere le sue emozioni per non ferirmi. “Non è così facile da spiegare, tesoro. Certe persone semplicemente non sono fatte per stare con altre persone e alcune non riescono a essere sempre presenti, ma questo non vuol dire che non ci vogliano bene.” “Te ne ha mai voluto? Di bene, lui, te ne ha mai voluto?” Questa è una domanda troppo seria per una ragazzina di dieci anni ed è troppo aperta a mille risposte differenti. Non mi piace mentire, ma non voglio che se un giorno lui dovesse finalmente capire cosa si sta perdendo, si trovi davanti un muro invalicabile. “Non è una cattiva persona, è solo che non sa come si fa. E non abbiamo avuto abbastanza tempo per aiutarlo a capire.” “E tu? Gliene volevi?” “Mi ha dato te, come non potrei?” Si accoccola contro di me e io la stringo come quando era malata e l’unica cosa che sembrava le facesse bene erano le mie coccole. Dopo qualche minuto di silenzio comincio a credere che sia addormentata, mi scosto lentamente da lei per farla mettere più comoda e le poso un bacio sulla fronte che la fa istintivamente sorridere. Mi metto comoda anche io e provo a riposare, sapendo già che dopo questo breve scambio di battute sarà ancora più difficile. Chiudo gli occhi e faccio un paio di profondi respiri, poi la sua voce me lo taglia in due il respiro direttamente nella gola. “È per il coach?” Non le rispondo e non perché non voglia o perché dovrei mentirle, non lo faccio semplicemente perché non ho una risposta a questa domanda. Non lo so se c’entra lui, la strana serata, il modo in cui mi guardava o quello in cui sembrava trattenere il fiato troppo a lungo quando ero io a guardare lui. Non lo so se Reid Johnston occupa ancora ogni mio pensiero o se è solo un ricordo distorto di un tempo che non ho mai avuto. Il braccio di mia figlia si stringe intorno alla mia vita. “Magari resto per farti compagnia, così non ti senti sola.” Dovrei dirle che non mi sento sola perché ho lei, ho la mia famiglia anche se al momento dispersa chissà dove, ho i clienti e la cittadina e una vita piena. Dovrei dirglielo, sarebbe giusto, sarebbe da madre che ha a cuore la serenità di sua figlia e che non vorrebbe turbarla per nulla al mondo. E invece non lo faccio, mi limito a stringerla a me e a chiudere gli occhi, a immaginare qualcosa che non ho mai avuto, che non abbiamo mai avuto e che ho paura che non avremo mai.

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