Capitolo 65

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Il suono dei miei leggeri singhiozzi strozzati è l'unica cosa che spezza il silenzio della stanza scura nella quale sono chiusa.
Mi passo per l'ennesima volta i palmi delle mani sul viso, cercando di asciugare le guance e gli occhi, che bruciano per le troppe lacrime che cerco, invano, di trattenere.

Mi rannicchio ancora di più nel divanetto sotto la finestra della stanza di ospedale nella quale riposa mia madre, portandomi le ginocchia al petto e posando la fronte su di esse, cercando di smorzare sul nascere i singhiozzi che mi sconquassano il petto.

Sono un'idiota.
Una grandissima idiota.

Si, concordo a pieno.

Oh, ma insomma. Sta zitta.

Tiro su col naso, alzando il viso e puntando lo sguardo, appannato per via delle lacrime, sul soffitto buio.

Sento dei rumori provenire dall'esterno, ma non me ne preoccupo, sapendo per certo che sono semplicemente le infermiere che fanno avanti e indietro per i corridoi.

Premo le dita sugli occhi, sfregando con violenza per risvegliarmi un attimo dal mio stato di depressione ed immersione nelle lacrime.

Prendo un fazzoletto poggiato sul comodino e mi soffio il naso, per poi rannicchiarmi in una posizione leggermente più comoda e cercare finalmente di prendere sonno, dal momento che sono già le tre del mattino.

Chiudo gli occhi, rimanendo però in uno stato di dormiveglia, che mi fa perdere la concezione del tempo, portando la mia mente a casa: osservo Dylan, davanti ai fornelli, la schiena tatuata scoperta dall'assenza della maglia e con il pantalone del pigiama regalatogli da me a Natale; immediatamente mi sposto, guardando il volto del mio ragazzo che mi sorride, sopra di me, nel letto; finisco con il vederlo guidare a tutta velocità, concentrato sulla strada con quella smorfia imbronciata che lo accompagna perennemente.
Nonostante la mia mente stia vagando tra tutti questi piccoli flash, il mio corpo resta saldamente ancorato alla realtà, facendomi percepire ogni minimo suono che mi circonda.

Non so quanto tempo sia passato da quando ho chiuso gli occhi, quando mi sveglio di soprassalto, sentendo una voce dire il mio nome a voce piuttosto bassa.

Appena spalanco gli occhi, ogni cosa che stavo sognando un attimo prima scompare, senza nemmeno darmi il tempo di metabolizzare il tutto.

Ricordo solo che c'entra Dylan.

Mi guardo intorno e una figura snella e sicuramente femminile mi sta osservando, nel buio che avvolge la stanza.

Sbatto le palpebre e, una volta adattata all'oscurità, metto a fuoco quanto basta per capire che si tratta solo di Kylie.

<<Ky, che ci fai qua? Che ore sono?>> Biascico, in tono impastato.

Non risponde, ma mi fa un cenno con la mano, segnalandomi di seguirla fuori in corridoio.

Obbedisco, con mille domande senza risposta che navigano nel mio cervello, di neurone in neurone.

Mi chiudo la porta alle spalle, stringendomi nella felpa.
Fa freddo, qui.

<<So che è tardi..>> comincia.
Guardo l'orologio alla parete per qualche secondo, giusto per dare una risposta ad almeno una delle mie troppe domande e strabuzzo gli occhi: sono le quattro e mezza del mattino.

<<Tardi? Kylie, cosa ci fai qui? Tutta sola, oltretutto. Chi ti ha accompagnata?>> Chiedo, cercando di mantenere un basso tono di voce.

Lei si morde il labbro.
<<Mi dispiace per l'orario, credimi. Ero solo preoccupata. I ragazzi mi hanno raccontato tutto. Prima tua madre e poi la litigata con Dylan.>> Sospira, mentre io mi rabbuio. <<So che hai pianto, Holly.>> Mi posa una mano sulla spalla e con l'altra mi alza il viso, spingendomi verso l'alto il mento.

𝐋𝐈𝐅𝐄𝐋𝐈𝐍𝐄. (IN REVISIONE)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora