Capitolo 92. Tra la colpa e la verità

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L'edificio si stagliava contro il cielo grigio, massiccio e silenzioso.
Tre piani di mattoni scrostati e finestre cieche, alla periferia della città, dove la luce opaca sembrava trascinarsi stanca, filtrando appena tra le nubi basse.
Era lì che Eugenio aveva vissuto per qualche anno, lontano dalla famiglia, immerso nella scrittura, nei suoi misteri. Nessuno ci metteva, ormai, piede da più tempo.

Filippo fermò la moto poco più in là, lasciando che il rombo morisse lentamente.
Tolse lentamente il casco, guardandosi intorno, sicuro che non l'avesse seguito nessuno.
Osservò l'ingresso.
Il portone era chiuso.
Nessuna luce visibile.
Solo silenzio.

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Con un clic secco forzò la serratura, poi la porta si aprì cigolando.
Dentro, odore di muffa e vecchi ricordi. Salì le scale lentamente, evitando i gradini che scricchiolavano.
Terzo piano, l'ultimo.
La porta dello studio aveva ancora il nome inciso in una targhetta sbiadita: E. Fini.
Forzò anche quella. Una spallata decisa. Entrò senza fare rumore, richiudendosi alle spalle quel pezzo di passato.

Lo studio di Eugenio era rimasto immobile nel tempo.
L'arredamento bohemien con i suoi tappeti sfilacciati, le poltrone di velluto sfondate e lampade art déco dalle luci giallastre, pareva il riflesso stesso del suo padrone: geniale, disordinato, inafferrabile.
L'odore denso di carta, tabacco e umidità lo aggredì alla gola.

Camminò lento, lo sguardo scivolava sugli scaffali colmi di libri.
I titoli erano familiari: Nietzsche, Artaud, Pasolini, Bataille, testi filosofici annotati a margine, con la grafia stretta di lui che parlava ancora.
Forse lì dentro c'era qualcosa.
Un nome, una data.
Un'indicazione per smascherare il tradimento che aveva sporcato il suo nome.
Ma sentì che non era solo.

Il rumore di un oggetto scagliato a grande velocità sibilò nell'aria.
Un fermacarte metallico gli sfiorò la tempia, conficcandosi nella parete alle sue spalle.
Si voltò di scatto, già in posizione di guardia.

Dal buio emerse Giulia.
Il suo sguardo era feroce, quasi selvaggio, il respiro corto, come se avesse passato giorni in fuga, nascosta in quel rifugio dimenticato.
Indossava un top bianco dalle spalline sottili, i pantaloni neri, aderenti, abbracciavano le gambe snelle e toniche.
La sua figura, nonostante lo stato evidente di stanchezza e di lotta, manteneva un'eleganza crudele, quasi sensuale, come se la sua bellezza fosse un'arma affilata da usare fino all'ultimo.

"Tu."

La voce di Filippo era ruvida nonostante la sorpresa.
Un sussurro impastato di rabbia e rimpianto.

Lei fece un passo avanti, di sfida.
Lo fissava con ostinazione, il mento alto. Ma negli occhi aveva qualcosa che lui riconobbe all'istante: terrore.

"Che ci fai qui?"

Filippo non rispose subito.
La odiava in quel momento.
Ma la vista di lei, viva, intera, gli diede un sollievo che non voleva ammettere.

"Potrei farti la stessa domanda."

"Non osare avvicinarti..."
Il labbro inferiore le tremava, ma le mani erano ferme.
Pronte a colpire ancora.

"Non mi aspettavo di trovarti nascosta qui..." ammise il giovane, freddo, glaciale.
"Come un topo in trappola."

Lei non rispose.
Si limitò a indietreggiare, afferrando un attizzatoio vicino al camino, le dita tese, le pupille in fiamme.

"Cosa pensi?" ringhiò lui.
"Che sia venuto per ucciderti?"
Si avvicinò di un passo.
"Forse dovrei. Dopo tutto, eri la figlia di un bastardo. E forse anche la sua degna erede."

La ragazza scattò in avanti.
"Non osare parlare di lui in quel modo!"

"No? L'uomo di cui porti il sangue ha fatto a pezzi tutto ciò che ero. E tu... tu te ne stai qui, a fingere innocenza?"

Silenzio.
Giulia sbiancò.
Un secondo. Due.
Poi l'attizzatoio le scivolò dalle mani, con un clangore sordo.
Fece per parlare, ma la voce le si spezzò.

Lui la raggiunse in un attimo, afferrandola per i polsi.
La costrinse contro la parete, con una forza che non ammetteva repliche.
I loro respiri si intrecciarono.

"Non parlare di lui?" ripeté Filippo, con la voce bassa, tagliente.
"Alberto Fini è l'assassino di mio padre, di mia madre. Colui che li ha bruciati, come se fossero immondizia. Quel nome lo sputerei nel fango."

Giulia lo fissò, tremando.
Poi, il gelo.

"Cosa hai detto?"

Il suo viso impallidì.
Le pupille si allargarono.
Non sapeva.
Non sapeva nulla.
Lui la vide franare.

"Non può essere vero..."
Le parole le morirono in gola.
"Mio padre... no, non lui..."

Le mani non lottavano più.
Erano immobili tra le sue.

"Perché non me l'hanno detto...?" mormorò.
"Perché nessuno me l'ha mai detto?"
Una lacrima le sfuggì, senza permesso.
"Non lo sapevo, Filippo!"

Le mani di lui la trattenevano ancora. I polsi sottili, il battito impazzito.
La fissava.
Tremava anche lui.
Di rabbia, di altro.
La vicinanza era tossica, inevitabile. Le parole pesavano, ma i corpi si cercavano nel conflitto.

"Io non sono come lui..." sussurrò lei, la voce incrinata.
Il petto, ancora scosso dal respiro agitato, premeva contro il suo, in un contatto che smentiva ogni distanza voluta.

Filippo chiuse gli occhi.
Inspirò a fondo.
Avrebbe dovuto spingerla via. Distruggerla.
Ma le mani scorsero invece sulle sue braccia, poi sulle spalle.
"Dimostralo allora."

Lei lo guardò, confusa.
Le labbra socchiuse.
Una sfida.
Un abisso.

Poi fu lui ad avvicinarsi.
Le sfiorò il collo con le labbra, senza baci. Solo il respiro.
Le dita le salirono lungo la schiena, lente, provocatorie.
Poi la spinse ancora contro la parete, ma stavolta la presa era diversa.

Lei non si oppose.
Lo cercò con lo sguardo.
"Mi odi?" sussurrò, con un filo di voce.

"Sì."
La bocca le sfiorò la mandibola.
"Ma ti desidero abbastanza da perdere la testa."

Giulia si aggrappò alla sua maglia.
Un istante dopo, le labbra si cercarono. Un bacio rabbioso, sporco, necessario.
Le lingue si scontrarono come pugni.
Le mani si strinsero come catene.
Ma fu breve.
Si separarono, ansimanti.

Filippo si scostò.
Le mani nei capelli, il petto che si sollevava in cerca d'aria.
"Non posso..."
La voce era rotta.
"Tu sei tutto quello che non posso amare."

Giulia abbassò lo sguardo, carico di lacrime silenziose.
Poi si girò verso la finestra rotta.
"Allora vattene," disse sottovoce.

Lui non rispose subito.
Si avvicinò di nuovo, fissandola negli occhi.

"Non ci sarà pace finché non saprò tutta la verità. Resterò qui," disse, determinato.
"Devo capire cos'altro mi è stato nascosto. E tu, non ti muovi da questo posto finché non avrò avuto le risposte che cerco."

La voce era bassa, dura, nonostante tremasse appena.
Lei non rispose.
Fuori, il cielo si squarciò.
La pioggia cominciò a cadere.
Fitta, insistente.
I due rimasero fermi, sospesi tra l'odio e il desiderio, tra la colpa e la verità. Nessuno dei due poteva tornare indietro.

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