Capitolo 86. Scacco matto

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La stanza era immersa nella penombra, illuminata solo dalla luce fioca di un lampadario antico che proiettava ombre irregolari sulle pareti tappezzate.
Il ticchettio dell'orologio a pendolo scandiva ogni mossa con una lentezza esasperante.
Don Aldo sedeva immobile, il volto scavato dalle rughe, lo sguardo fisso sulla scacchiera tra lui e Ivan. Indossava un completo grigio scuro, il bavero sollevato, come se anche nella sua dimora il freddo fosse entrato senza chiedere il permesso.
Ivan, composto, attese il suo turno.

"Capo, come mai ha scelto di restare qui?"chiese, muovendo un pedone in avanti.

Don Aldo sollevò lo sguardo solo per un istante. Un sorriso gli piegò le labbra, lento e inquietante.
"Non sono più un uomo d'azione da molto tempo, ragazzo. I veri re non si sporcano le mani. Danno ordini e osservano il caos sfociare intorno a loro."

Mosse il cavallo.
La pedina avversaria venne spazzata via con un secco toc.
"Credo che in ogni caso non ci saranno intoppi."

Ivan lo osservò con attenzione, il tono si fece più tagliente.
"Anche se al comando c'è Marini? Vostro figlio..." azzardò, ma non osò continuare.

Il vecchio abbassò lo sguardo sulla scacchiera. Le mani ossute sistemarono una pedina con cura chirurgica.
"Anche i pedoni possono essere utili, se disposti nel punto giusto. Marini pensa di avere il controllo. Lasciamoglielo credere."

Poi, aggiunse con voce bassa:
"Vedi, ragazzo... A volte basta solo aspettare che tutti si illudano di avere il controllo. E poi...spingerli giù dal bordo."

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Il rumore dei bicchieri, delle carte sbattute sul tavolo e di una vecchia canzone americana risuonava tra le mura di una delle stanze del quartier generale. Un fumo denso impregnava l'aria, rendendo irrespirabile quella situazione.
Filippo sedeva immobile su una poltrona di pelle scura, lo sguardo perso nel vuoto, un bicchiere di whisky stretto tra le dita.
La mano fasciata tremava lievemente, ma lui sembrava non farci caso.

Era elegante, distante.
Uno spettro tra uomini ubriachi di potere. Non aveva partecipato all'operazione, non aveva mosso un dito. Marini e i suoi si erano presi tutto. E lui li aveva lasciati fare.

Enrico Guerra rideva sguaiatamente a pochi metri di distanza, circondato da facce euforiche e donne stanche di essere ignorate.
Una festa, l'aveva chiamata.
Una celebrazione.
Il guadagno facile aveva acceso in lui un'arroganza nuova.

"Rocco e i suoi colpiranno a breve," disse qualcuno a bassa voce, passandogli accanto.

"Andrà tutto secondo i piani," rispose Enrico, sollevando il bicchiere.

La musica si abbassò.
Filippo non parlava. Non beveva. Respirava a fatica.

Una delle segretarie di Marini gli passò accanto, accennando un sorriso. Lui non la vide neanche.
L'unica cosa che percepì fu un passo leggero, familiare, che si avvicinava alle sue spalle.

Giulia.

Il vestito color smeraldo le aderiva alla pelle come una promessa sussurrata. Le spalle nude tremavano appena sotto la luce fredda, e i suoi occhi, brillanti e febbrili, non facevano altro che cercarlo.
Le labbra, carnose e imbrunite da un rossetto troppo scuro per sembrare innocente, si schiusero appena.

"Come stai?"chiese con voce velata, un filo di dolcezza misto a esitazione.

Filippo non rispose subito.
Si voltò lentamente, come se il peso del mondo gli gravasse addosso.

"Se ti riferisci alla mia mano... va meglio."
La voce era roca, impastata dalla rabbia trattenuta.
Dalle notti insonni. Dai dubbi.

Giulia si fece più vicino, e il suo profumo, un misto di ambra, fiori bianchi e nostalgia, gli trafisse i sensi. La sua mano sfiorò la fasciatura con delicatezza, le dita tremanti.

"Non è la ferita che mi fa più male."

Gli occhi di lei si velarono per un istante, come i vetri quando trattengono una pioggia pronta ad esplodere.
"Non avrei mai voluto questo per noi," disse, la voce sottile, le labbra tremanti.
Si chinò su di lui dandogli bacio leggero sulla fronte.
Un gesto troppo puro per quel posto.

Filippo chiuse gli occhi.
Per un secondo sentì di crederle.
Per un secondo.
Poi, il rumore.
Un uomo si avvicinò trafelato, occhi larghi come fanali.

"Capo, abbiamo un problema."

La voce di Enrico esplose dall'altra parte della stanza.
"La polizia! La polizia ha preso i nostri uomini! E anche quelli di Marini! È una retata, cazzo!"

Il bicchiere si fermò a mezz'aria tra le dita di Filippo.
Si girò incredulo verso la ragazza.
I suoi occhi erano due voragini.

"Cosa hai fatto, Giulia?"

Lei non si mosse. Restò lì, vicina.

"Gli ho condannati al loro destino," sussurrò.

Il giovane si raddrizzò.
La osservò a lungo.
Delicata e fragile, ma la voce era ferma.
Il bicchiere cadde, si infranse.

"Tu...hai venduto Marini, ci hai venduto tutti."

"Era l'unica scelta che mi era rimasta."

Il whisky versato sul pavimento formava una macchia scura.
Lui si alzò.
Si avvicinò a lei.
A un passo dalla verità.

"E io?" mormorò.
"Anche me hai condannato?"

Gli occhi di Giulia si abbassarono per un attimo. Poi tornò a guardarlo, il portamento fiero.
"Tu hai ancora tempo. Gli altri no. Finirà tutto stanotte."

Le urla aumentavano, fuori.
I passi si facevano più rapidi.
La festa era finita.
Filippo si avvicinò ancora.
Il suo volto a pochi centimetri dal suo.
"No, Giulia. Stanotte non finirá nulla. Stanotte comincerá l'inferno."

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Don Aldo spostò la regina.
La mosse lungo la diagonale, silenziosa e mortale.
Un clic sordo segnò la fine della partita.

La regina mangiò il re.

Ivan rimase immobile, immerso nella quiete sospesa di quell'istante.

"Scacco matto," disse Don Aldo, guardando la scacchiera.
Poi aggiunse, quasi premonitore:
"Ora comincia la vera partita."

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