Capitolo 70. Inadeguato

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Il fuoco crepitava nel camino, proiettando ombre danzanti lungo le pareti del salotto di villa Guerra.
Il legno bruciava lentamente, diffondendo nell'aria un odore acre, familiare, il profumo del tempo che scorreva inesorabile e divorava ogni cosa.

Don Aldo rise.
Una risata bassa, priva di allegria, un suono sinistro che sembrava mescolarsi al crepitio delle fiamme.
Poi si voltò lentamente verso suo fratello Osvaldo, un'ospite in quella villa che non vedeva da molto tempo.

"È così, sei venuto qui perché lo ritieni inadeguato?"

Osvaldo, seduto di fronte a lui, aveva le braccia incrociate, lo sguardo incupito dalla frustrazione.
Era più vecchio di lui di qualche anno, ma la differenza tra loro sembrava abissale. Mentre Don Aldo era un uomo temprato dal potere, dal sacrificio e da un rigido codice d’onore, lui aveva sempre avuto un’indole più pragmatica, priva di sentimentalismi.

Inoltre, era stanco.
Stanco delle decisioni prese senza consultarlo, stufo di vedere la famiglia mettere tutto nelle mani di qualcuno che, a suo dire, non aveva la forza necessaria per sostenere quel peso.

"Filippo è troppo emotivo, a dir poco instabile," sentenziò duramente, sfidandolo con un tono che non ammetteva repliche.
"Questo suo temperamento ci sta facendo perdere affari molto importanti. Se continua così, ci porterà alla rovina."

"Instabile?" lo interruppe Don Aldo, visibilmente contrariato.
"Sarà anche così... ma la passione che brucia in lui, quella stessa forza che tu scambi per debolezza, potrebbe portarci alla vittoria."

"Non dire sciocchezze, Aldo. Stiamo perdendo terreno negli affari. La nostra influenza sta diminuendo, e tu insisti nel voler far gestire tutto a quello sciocco ragazzo. Domani, come stabilito, verrà mio figlio a sistemare la situazione. E credimi, se le cose continuano a peggiorare, sarà lui a prendere le redini di questo impero."

L'altro lo fissò intensamente.
Sapeva bene dove voleva arrivare suo fratello: era certo che dietro l'apparente preoccupazione per gli affari, cercasse il momento giusto per appropriarsi del potere che lui, Don Aldo Guerra, aveva detenuto per anni, approfittando della presunta debolezza di Filippo.

“Preferisco puntare su di lui, non voglio un burattino senza anima a reggere il nostro nome,” rispose.
La voce si fece più profonda, più intensa.
“Non voglio che la nostra eredità venga diluita da una mente che agisce solo per interesse, senza cuore, senza visione.”

Osvaldo si irrigidì, infastidito da quella cruda determinazione del fratello.
"Burattino o meno, un leader deve avere disciplina, controllo, strategia. Tuo figlio non ha nulla di tutto questo," replicò, il volto contorto da un’ambizione che sembrava non conoscere limiti.
"Prima o poi dovrai ammetterlo. Quel ragazzo non è degno di essere il tuo erede."

Il silenzio che ne seguì fu imbarazzante, carico di tensione.
L'uomo a quel punto uscì, sbattendo la porta con violenza.
Il silenzio tornò a invadere la stanza, avvolgendo tutto come una nebbia densa. Gli occhi del patriarca dei Guerra si velarono di una tristezza che nessuno avrebbe mai potuto immaginare.

"Il mio vero erede non c'è più…" bisbigliò, sicuro che non lo sentisse nessuno.

Le parole gli uscirono come un sussurro infranto.
Un dolore segreto, che non aveva mai condiviso con nessuno, nemmeno con Osvaldo. Il segreto che aveva custodito per anni, dietro muri di silenzio e potere, era una sofferenza che non sarebbe mai andata via.

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