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Jason

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Jason

Non l'avrei mai potuta dimenticare. Parte di me la odiava per questo, ma un'altra sapeva che perderla non era un'opzione. E non volevo accettare che per la millesima volta nella mia vita i miei comportamenti da cazzone mi stavano portando via ciò che più volevo.

E quella prima notte in stanza, mentre ascoltavo in silenzio il suo respiro che mi ricordava sospiri, per una paura insensata che questi potessero smettere all'improvviso, non avevo chiuso un occhio.

Continuavo a trovare scuse, che si sarebbe ricordata che in fondo in me qualcosa di buono forse l'aveva trovato e che quando mentivo non guardavo mai negli occhi le persone.

I suoi occhi immensi erano tutto ciò che c'era per me quando mi parlava.

Per un attimo quella sera, quando l'avevo vista correre via, mi ero pure illuso che forse mi amava abbastanza da perdonarmi per la millesima volta. Charlotte per me era salvezza e danno, senno e follia.

E non volevo più dover sentire la sua voce ogni sera o le sue battutine sarcastiche per sentirmi vivo. Il mondo senza lei diventava un limbo.

«Tieni, Jason.» Il padre di Charlotte mi passò un bicchierino, del quale contenuto alcolico non conoscevo.

La guida ce ne stava parlando, ma sinceramente era l'ultima cosa che coglieva la mia attenzione. Lì dentro si gelava, nonostante avessi tre strati di vestiti addosso.

Feci un gesto col capo per ringraziarlo: «Grazie Michael. Ma non ho molta voglia di bere.»

Guardai con un po' di insicurezza il bicchierino colmo. Quel bicchiere mi ricordava troppo di quando Tom se ne faceva dieci e sveniva mezz'ora dopo. Scossi la testa, disgustato, per concentrare la mia attenzione su altro.

Trovai di nuovo tranquillità quando vidi Charlotte ridere dall'altra parte del tavolo, in piedi. Sembrava una bambina in quel piumino enorme, più tardi l'avrei presa in giro per questo.

Amavo come i suoi capelli si poggiano con tale delicatezza sulle sue spalle o di come a volte quando rideva lo faceva con un tono un po' troppo alto. Più di una volta, quando la facevo intrufolare in camera mia di notte, i miei genitori ci avevano scoperti. Solo per quella risata.

Feci una smorfia infastidita, quando riconobbi che stava ridendo per una battuta che la nostra guida (che tra l'altro sembrava un ragazzino) aveva fatto. Decisi di prendere un sorso della bevanda nelle mie mani, forse avrebbe alleviato un po' le emozioni. Le avevo sempre odiate quelle stronze.

Non l'hai persa, non l'hai persa, non l'hai persa. L'importante è crederci. Capendo che la mia pazienza e il mio autocontrollo erano arrivati a un fine, mi fiondai in mezzo ai due. Intanto i nostri genitori stavano bevendo tra di loro.

Tolsi con disgusto la viscida mano di quel ragazzo dal braccio di Charlotte.

«Mi pare che ti stai allargando un po' troppo, bello mio», gli dissi, cercando di sembrare il più tranquillo possibile. Sapevo che Charlotte mi avrebbe odiato per quel mio comportamento, ma non ero mai stata una persona che non agiva.

«È- è tutto apposto?», domandò quella merdina della guida. Mi guardò con un ché di spaventato e confuso, così mi misi più diritto per fargli capire.

«Ti stai allargando un po' troppo», ripetei.

Questa era la differenza tra Charlotte e me; lei pensava prima di parlare, mentre io agivo prima di ragionare. O senza ragionare proprio.

«Jason, smettila», ringhiò Charlotte, tentando di spingermi un po' via.

«Perché scusa? Ti sta facendo ubriacare.»

«Tu semmai sei ubriaco», ribadì irritata.

Questo non poté che darmi una fitta al petto. Sapevo che presto avrei reagito con la rabbia, come al solito, così decisi di allontanarmi prima di impazzire.

Lanciai uno sguardo omicida a quello stupido ragazzo, per assicurarmi che non avrebbe più osato toccarla e uscii da quella stanza, con l'intento di andare al fresco a tranquillizzarmi.

Odiavo vedere riflesso negli occhi di Charlotte ciò che non andava in me, senza che lei me lo volesse far sapere. Era una fottuta pausa, non ci eravamo lasciati. Non ci saremmo mai lasciati.

Mi poggiai al muro del ristorante, osservando le nuvole di vapore provenire dalla mia bocca. Sentivo ancora della rabbia percorrere il mio corpo, ma pensare di spaccare la faccia alla guida non aiutava a calmarmi.

Forse dovrei tornare all'hotel.

«Scusami», mi voltai alla mia sinistra, per riconoscere una ragazza ben vestita con una sigaretta in bocca, «hai un accendino?»

«No, scusa», tagliai corto, per evitare di incitare una conversazione.

La ragazza sbuffò: «Che palle. Ho chiesto a tutti dentro.»

«Hm.» Non avevo alcuna voglia di parlare, ma lei mi porse la sua mano.

«Io mi chiamo Josephine comunque.»

«Jason», le strinsi la mano.

La porta d'entrata si aprì con forza e rilevai Charlotte al quanto cupa.

Dopo essersi guardata in giro per qualche istante, mi riconobbe appoggiato al muro e vedendo pure Josephine rimase un po' scettica.

«Ei...ehm...Charlotte», balbettò, evidentemente a disagio, per presentarsi alla ragazza accanto a me, con gentilezza.

«Ei, ciao», rispose lei.

Incrociai lo sguardo di Charlotte, eravamo entrami in imbarazzo. Fortunatamente nessuno dei due aveva bevuto troppo.

«Perché sei uscita?», le domandai incuriosito.

Lei mi guardò attentamente, odiavo quando lo faceva, perché sentivo di non avere più alcun controllo di nulla.

Fece un'espressione offesa, anche se cercava di nasconderla: «Volevo vedere come stavi.»

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