59. Ricovero

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«Cavolo, è già arrivato il momento di partire. Non sono pronta.» Sento le lamentele di Erika provenienti dalla cucina e, con qualche difficoltà, cerco di aprire lentamente gli occhi, e mi accorgo che, nonostante il busto e il gesso alle gambe, sono finita per trovarmi distesa sulle gambe di Esteban, con il volto rivolto verso la tv di fronte a me.

Aspetta, Esteban? Come faccio a ritrovarmi distesa sulle sue gambe? Fino a poco fa lui mi stava solo abbracciando. I miei occhi si spalancano, ma il mio corpo resta comunque immobile. Sarà per il busto, e per il fatto che non posso fare movimenti bruschi, ma non riesco neanche a parlare, a dire di aver bisogno di aiuto per alzarmi, oppure muovere un po' la faccia. Niente, non faccio nulla.

«Erika, devi farlo, per il tuo bene. Se fossi riuscita a seguire ciò che ti dicevano i dottori, ora stavi già meglio e non dovevi essere ricoverata di nuovo, invece eccoci qui. Quei due stanno dormendo. Che vuoi fare, li svegliamo così li saluti, oppure va bene così?» Questa è la voce di sua madre.

«No, devo svegliarli. Non voglio stare male, e so che parlare con loro mi creerà tanta nostalgia, ma non è giusto nei loro confronti non dire nulla. Voglio bene ad Erika come se fosse mia sorella, ed Esteban non merita di essere abbandonato di nuovo.» Abbandonato di nuovo? Esteban? Cazzo, questa cosa non la sapevo. Da chi, poi? Non avrei mai pensato che una persona abbastanza calmo e felice avesse sopportato un abbandono di qualcuno di importante.

Questa volta, dopo una grossa determinazione radunata dentro di me, anche se una millesima parte di me preferirebbe restare ferma, finalmente comincio a muovere la testa e le braccia, e la fortuna vuole che Esteban è già sveglio, infatti, per evitare che facessi forza sulle braccia mezze ingessate, mi aiuta ad assumere una posizione seduta e comoda.

«Ben svegliati, piccioncini. Stavo giusto per svegliarvi io.» La voce di Julien è vicina a noi, e l'unica cosa che ho sentito tra tutto quello che ha detto è stato il suo nomignolo, piccioncini. Il senso di chiamarci così? Non lo so, ma non siamo degni di essere nominati così, perché non stiamo facendo smancerie da coppie e non siamo neanche carini. Almeno io non lo sono.

Guardo Esteban con una faccia senza dubbio oscena. Tra il sonno, gli occhi mezzi chiusi, gli sbadigli e la voglia di distendermi di nuovo mi stanno mangiando viva. «Che ore sono?» Mi trovo a chiedere, senza neanche sapere a chi mi stessi rivolgendo.

«Sono le 3:30 del pomeriggio, Jenna. Noi stiamo andando in ospedale a Los Angeles. Voi cosa volete fare? Venite con noi?» Mi chiede Julien. Io guardo di nuovo Esteban. Ho troppa stanchezza nel corpo per costringermi ad uscire di nuovo di casa.

«Se tu vuoi andare, ES, stai tranquillo. Posso rimanere qui a riposare un po', e ci sta Mal a farmi compagnia. Non preoccupatevi per me.» Lo avviso. Non ho intenzione di bloccarlo, se vuole accompagnare sua cugina in psichiatria. Io non sono nessuno, per loro due, e la famiglia è la cosa più importante nella propria vita.

«Jen, non pensarci neanche lontanamente. Non ti lascerò da sola. Erika potrà sempre ricevere visite durante il ricovero, e tu adesso hai bisogno di aiuto per muoverti e fare qualcosa, perciò non me ne vado. Io resto qui con te.» La sua voce è ferma e decisa.

«Ma Erika ha bisogno di te in questo momento. Ha bisogno di qualcuno che la sostenga durante il viaggio, che la tranquillizzi e le stia accanto, per evitare di farle prendere un attacco di panico. Io devo evitare di stare solo in giro, viste le mie condizioni, quindi devi andare tu.» Cerco di convincerlo.

«Jenna, stai tranquilla. Può restare tranquillamente con te. Non ho necessariamente bisogno di supporto, tanto prima o poi sempre sola devo restare lì dentro. Solo di una cosa ho davvero bisogno da voi: me lo date un grande abbraccio caldo?» Ci implora. Io ridacchio alla sua strana richiesta, ma faccio comunque per alzarmi dal divano e accontentarla.

Alla fine è Esteban che mi prende da sotto le ascelle per farmi impalare, e con tutta la delicatezza di questo mondo, Erika ci avvolge contemporaneamente in un tenero abbraccio. Troppo sdolcinato per i miei gusti, ma è un'amica, e cerco di farmelo andare bene. Non devo essere ostile ad ogni forma di affetto da parte delle persone. A differenza mia, gli altri hanno un vero cuore al posto del mio buco nero.

«Mi mancherete, ragazzi. Spero che in quel reparto non mi toglieranno il cellulare, così ci possiamo sentire anche tramite videochiamate. Fatevi sentire e non vi dimenticate di me.»

Detto ciò, ci stacchiamo e lei e sua madre escono di casa, seguite dai nostri saluti.

«Cavolo, non avrei voluto più rivivere un suo ricovero, e invece eccomi di nuovo qui, ad essere triste per quello che deve passare.»

«Lo so, io ho distrutto mia madre per questo. Non sono riuscita a riprendermi in fretta, e quindi mia madre mi ha perso varie volte per i ricoveri. Le persone dall'esterno, però, ti assicuro che vivono solo una minuscola parte del dolore che prova la persona che viene ricoverata.» Cerco di spiegargli. Me ne rendo conto anche adesso che sono io a stare in un momento in cui una mia amica viene ricoverata.

«Vuoi qualcosa da mangiare?» Mi chiede lui, di punto in bianco, quando l'auto di Julien si allontana dalla casa.

«Sto morendo di sonno, ES. Non riuscirei neanche a mantenere una forchetta e a vedere il piatto.» Ammetto, finendo per ridere come una stupida per quello che ho detto. Okay, non capisco più neanche cosa mi sta succedendo. L'operazione mi sta veramente stordendo. Non è da me avere tutto questo sonno, e soprattutto, la gamba destra sembra di essere sul punto di un'esplosione. Mi sento strana, ma se è dovuto all'operazione, deve essere una cosa normale. anche il dottore ha detto lo stesso, quindi sto tranquilla.

«Non vuoi neanche quello che ti avevo promesso di preparare?» Lo osservo sorridermi beffardamente, ma anche divertito.

«Oh cazzo, la carbonara. No, ES, adesso vai in cucina e me la prepari. Ora ho fame per colpa tua.» Esteban comincia a ridere a crepapelle per il mio cambio repentino di umore, ed io però resto seria, lamentandomi silenziosa per il mio forte mal di testa, cercando di non darlo a vedere.

«Ora vado, intanto vieni con me. Hai bisogno di stare tranquilla, ma visto che io sarò in cucina, vieni anche tu con me e ti faccio sedere sulla poltrona della cucina. Tu devi solo osservare un bell'uomo alle prese con le faccende domestiche che di norma fanno le donne.»

«Molto modesto il ragazzo.» Rido ancora, ma mi faccio accompagnare in cucina e resto a fissare ogni suo movimento, nonostante i miei occhi e la mia vista nera implorano un lungo, infinito sonno profondo.

Amore tossicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora