9. Non mi lasciare, Harry

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Per quasi tutta l'ora successiva osservo Sally muoversi di fronte al giornalista, alla ricerca dell'inquadratura migliore, della luce e del modo di non riprendere il mastodontico nasone che l'uomo si ritrova attaccato al grugno. Non usa una delle sue videocamere, ma un marchingegno enorme di proprietà del telegiornale; sinceramente, credevo che la tecnologia si fosse modernizzata, e invece mi tocca vedere il suo metro e cinquanta scarso brandire quell'arnese che credo possa pesare almeno un quintale.

Sinceramente, per fare un servizio di quattro minuti risicati, non credevo impiegassero tutto questo tempo.

Quando sto per esultare perché finalmente hanno terminato il lavoro, il microfonista sparisce nel furgone e il capo prende Sally in disparte: inizia a parlarle in modo pacato, passandosi di tanto in tanto le mani nei capelli brizzolati e gesticolando placidamente per spiegare qualcosa che, a giudicare dalle espressioni sorprese e poi deluse di Sally, non è nulla di piacevole.

La sta licenziando, è palese. Quel figlio di puttana ha aspettato di usarla per il suo servizio e ora la sta scaricando. Sono appoggiato al cofano da almeno mezz'ora e provo ad avvicinarmi di qualche passo e, quando sento Sally pregarlo: «mi dia fiducia ancora una volta, non accadrà più», mi sento in dovere di intervenire in sua difesa. È arrivata in ritardo sul lavoro per colpa mia, e io non sono mai stato uno vigliacco: mi prendo le mie responsabilità.

Ma Sally, scrollando la testa per la delusione, mi precede e lascia il giornalista accanto al furgone.

«Harry, andiamo a casa, per favore», dice raggiungendomi alla macchina.

Chiudiamo le portiere con un tonfo vuoto, ma ancora non parto. «Ti ha licenziata, vero?»

Sally annuisce, ma non dice una parola.

«Posso andare a parlargli?» propongo. «Mi dispiace. È stata colpa mia se sei arrivata in ritardo.»

Sospira appena, l'ingombrante borsa premuta contro di lei che quasi pare sovrastarla tanto tiene la schiena incurvata nella frustrazione. «Non serve, Harry, non è colpa tua; non gli importa se mi è caduto un meteorite sulla macchina o se mi hanno rapita gli alieni: il risultato è quello che conta, e il risultato che sono riuscita a dare è quello di non essere arrivata in tempo per fare il servizio.»

«Non può punirti per il primo errore che fai.»

Quello che le increspa le labbra è soltanto un sorriso amaro. «Non è il primo errore che faccio, purtroppo; non è stato solo per il ritardo... era da qualche giorno che non aspettavano altro per liquidarmi. Devono avermi chiamata quando i soccorsi e il carro attrezzi se ne erano già andati: non sarei mai potuta arrivare in tempo in ogni caso», spiega sconsolata, arricciando la tracolla della sua borsa tra le dita. Non mi guarda, i suoi occhi sono puntati davanti a sé, ma non guardano realmente nulla.

«E perché avrebbero voluto licenziarti?»

Lei fa spallucce, quasi come se le sue parole avessero poca importanza. «Evidentemente, non piaceva il mio lavoro... non era abbastanza... non sono abbastanza brava.»

Sospiro appena e non so cosa dire. Potrei consolarla, forse, ma con quali parole? Oltre a non essere stronzo, non sono nemmeno ipocrita: come faccio a dirle che non è vero se non ho mai visto come lavora? Magari, questo non è davvero il lavoro che fa per lei...

«Harry, andiamo a casa, i miei genitori devono già essere arrivati», conclude in un mormorio sommesso.

«Hai intenzione di dire stasera del lavoro?» le chiedo e, senza rendermi conto delle mie azioni, mi sporgo per toglierle un ciuffo di capelli che le copriva gli occhi; glielo sposto dietro l'orecchio, rivelando così una grossa lacrima silenziosa che, nascosta alla mia visuale, stava scendendo fino alla punta del mento arrotondato. Lei se ne accorge e la cancella con un gesto brusco. Ok, è meglio chiudere qui il discorso.

Harry ti presento SallyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora