Villa Colchide era una di quelle strutture che a primo impatto non colpivano particolarmente per imponenza o maestosità ma che, ad uno sguardo più attento, lasciavano incantato qualunque osservatore per la purezza classicheggiante delle forme e la curata raffinatezza, quasi maniacale, di ogni dettaglio. Guardandola ci si commuoveva quasi di fronte a un frutto tanto ben riuscito di quel desiderio tipicamente umano, tuttavia il più delle volte irrealizzabile, di imbrigliare il chaos del reale nella forma e nell'ordine. In particolare Andrada adorava la facciata principale. Questa, attraverso uno splendido colonnato sovrastato da un timpano decorato a bassorilievi, ricordava moltissimo un tempio greco. Lasciando l'immaginazione libera di correre aveva l'impressione che da un momento all'altro avrebbe cominciato a sentire l'odore di fumo e incensi e il canto arcaico e misterioso dei sacerdoti. In un battito di ciglia, però, quel mondo splendente si dissolveva come neve al sole lasciando il posto alla cruda realtà. Una realtà fatta di malinconia, noia, sensi di colpa ma soprattutto paura che ben presto era diventata terrore di fronte a quel male apparentemente implacabile che li aveva costretti ad abbandonare la propria città e che, a distanza di settimane, imperversava con impeto se possibile sempre maggiore mietendo più vittime di quelle che si riuscivano a calcolare o per lo meno a stimare e si era diffuso anche alle città vicine. Le notizie da Firenze giungevano sempre con maggiore ritardo e quando finalmente una lettera di Marco Bello o di Filippo Brunelleschi li raggiungeva nulla nelle loro parole lasciava spazio a una benchè minima speranza e la tensione dentro l'elisia Villa cresceva di giorno in giorno. Abituarsi a una nuova dimora, benchè sembrasse un dettaglio banale rispetto a tutto il resto, non era facile per i Medici che ormai faticavano a chiamare un qualunque posto "casa" dopo ciò che avevano passato e gli unici che riuscivano a godere di quel soggiorno forzato erano i bambini.Grazie alla loro spensierata innocenza non percepivano l'inquietudine che aleggiava negli animi degli adulti e vedevano quella permanenza forzata come una vacanza lontano dalle tante imposizioni della città. Lì potevano trascorrere il tempo a correre e giocare liberamente nelle sterminate distese di vigneti e uliveti che circondavano la Villa. Alte mura e un cancello di ferro battuto racchiudevano come un abbraccio materno tutta la proprietà proteggendo e isolando quell'angolo sicuro e non c'era neppure bisogno di sorvegliarli. Fuori ormai c'erano solo morte e disperazione ma lì dentro non correvano pericoli. Qualche volta Andrada li osservava non vista e piangeva fino a sentirsi male al pensiero di tutti quei bambini che non avevano nulla di diverso rispetto al suo piccolo Ormanno o ai vivaci figli di Elsa ma che per qualche assurdo motivo soffrivano e morivano là fuori. In un tempo non molto lontano ma che le sembrava tanto remoto da poter essere appartenuto a un'altra vita non avrebbe mai neppure potuto concepire pensieri come quelli. Per lei il popolo era stato soltanto una massa indistinta e astratta: certo a Palazzo avevano lavorato molti servi ma erano stati discreti, quasi anonimi, e avevano fatto di tutto per confondersi con l'arredamento. Ce li aveva avuti davanti agli occhi ogni giorno ma non li aveva mai visti davvero, non aveva imparato neppure i loro nomi. E quella sua indifferenza l’aveva fatta vivere come in una bolla, sia nel bene che nel male ogni sentimento era ovattato, lo sguardo come offuscato. Poi aveva conosciuto Selene, Marco Bello, Donatello, aveva dato volto al popolo, l'aveva reso qualcosa di vicino e umano, ed una volta che si era usciti dalla caverna e si aveva visto la luce del sole non si poteva più tornare indietro anche volendo. Il giorno prima aveva avuto una piccola crisi, la gravidanza si era dimostrata fin dal primo istante molto difficile, e Cosimo e Selene l’avevano costretta a rimanere a riposo. Capiva la loro paura perché lei stessa era terrorizzata all'idea di poter abortire da un momento all'altro ma non ce la faceva a rimanere neppure un minuto in più dentro quel letto. L'inattività le lasciava la mente libera di pensare: al sepolcro del suo piccolo che giaceva ancora nel giardino di quello che un tempo era stato Palazzo de’ Medici ma che ora era soltanto un cumulo di rovine annerite, a Federico che da qualche parte nel mondo combatteva battaglie su battaglie senza alcun motivo mettendo a rischio inutilmente la propria vita per colpa sua, a suo zio e a Marco Bello che erano rimasti in quel Pandemonio che aveva preso il posto della loro amata città. Ma il pensiero che la tormentava di più e la faceva quasi uscire fuori di senno era la possibilità di perdere di nuovo la gravidanza. Ne era terrorizzata perché sapeva bene che se fosse successo ancora non sarebbe mai riuscita a riprendersi. Cercava di fare del proprio meglio per mostrarsi il più serena possibile davanti agli altri perché non poteva permettersi di trascinarli nel baratro insieme a lei ma era stancante indossare sempre quella maschera pacata quando avrebbe solo voluto gridare fino a perdere la voce e crogiolarsi nella propria angoscia. Sapeva anche che quello stato d'animo non faceva per niente bene alla creatura che le cresceva dentro e che i dolori, le nausee violente e i colpi di sonno improvvisi ne erano la manifestazione palpabile. Era gentile il modo in cui la sua famiglia si preoccupava per lei ma loro non erano a conoscenza, non del tutto per lo meno, anche se sicuramente intuivano, dei demoni che la tormentavano. Quello di cui aveva bisogno era un'attività che le catturasse l'attenzione, non certo inerzia e solitudine. Desiderava ardentemente andare a prendere Aurora, salire in sella e correre più veloce del vento, più veloce dei ricordi e delle preoccupazioni ma sapeva di non poterlo fare. Cavalcare era assolutamente fuori discussione per una donna incinta, tanto più per una a rischio come lei, e Cosimo l'avrebbe uccisa se avesse provato a fare una follia del genere. A volte invidiava Selene per la sua irrazionalità perché ogni tanto fare ciò che ci si sente e seguire i propri impulsi più profondi, anche se può comportare dei rischi, è l'unico modo per farsi scivolare di dosso il peso schiacciante della tensione e per essere, anche solo per qualche istante, davvero liberi. Lei al contrario si sentiva perennemente in catene. Sbuffò rumorosamente, poi si diresse con passo pesante verso la cassettiera per indossare qualcosa di più presentabile della camicia da notte. Man mano che scendeva il rumore diventava sempre più percepibile: sembrava che qualcuno di sotto stesse discutendo aspramente. Guardò nel salotto alla francese, nel nuovo studio di Cosimo e in sala da pranzo. Non si vedeva nessuno. Provò quindi a uscire fuori e finalmente li vide. C'erano Selene, Lorenzo, Cosimo e persino Piccarda. Di fronte a loro un ragazzo scarno e vestito umilmente stava immobile e non fiatava mentre suo marito inveiva. Raramente Andrada lo aveva visto perdere in quel modo il controllo: con lei gli era successo diverse volte, per non parlare con Lorenzo, ma non si mostrava mai così vulnerabile di fronte a uno sconosciuto. Scese a passo felpato la lunga scalinata e in un primo momento non si accorsero del suo arrivo presi come erano dalla conversazione. “ ... deve fare sempre così?! Pensavo che dopo aver sposato sua nipote e aver convissuto per settimane nella stessa casa avesse messo da parte l'ascia da guerra.” Continuò imperterrito Cosimo gesticolando animatamente e Andrada si rese conto che in realtà stava parlando con se stesso. “Così impari a fidarti. Se quel sant'uomo di tuo padre fosse ancora qui e potesse vedere come tu e tuo fratello state distruggendo tutto quello che ha creato a costo di sacrifici e privazioni morirebbe per il dolore.” Si lamentò Piccarda. "Lascialo in pace. Ha abbastanza cose a cui pensare anche senza dover ascoltare le tue scempiaggini. Cosimo sta andando alla grande, in una situazione del genere neppure nostro padre avrebbe saputo fare meglio." la zittì Lorenzo, irritato per l'ennesima intromissione fuori luogo. La giovane si era resa conto che doveva essere successo qualcosa di grave e che probabilmente il ragazzo doveva essere un messaggero ma voleva capire meglio. "Che cosa sta succedendo?" la sua voce risuonò più forte di quanto avrebbe voluto: tutti si voltarono a guardarla in silenzio e vide Cosimo persino trasalire. La prima a riprendersi fu Selene "Marco non è potuto venire ma ci ha mandato un messaggio: Rinaldo de' Albizzi ha accusato Cosimo di aver abbandonato Firenze per viltà e ha chiesto che lui venga estromesso dai Dieci di Balia. Hanno accolto la sua mozione quindi tra un settimana esatta si riuniranno per prendere una decisione al riguardo." Le spiegò con la voce tremante e gli occhi lucidi per le lacrime trattenute. Andrada si sentiva la testa leggera e le fischiavano le orecchie: non poteva quasi crederci. Suo zio non aveva mai celato il suo rancore e la sua antipatia nei confronti di Cosimo ma la giovane riusciva a stento ad accettare che fosse arrivato davvero a tanto. Sua moglie e suo figlio in fondo erano partiti con loro e anche se lui non credeva che ci fosse sul serio il pericolo di venire contagiati finché ci si manteneva alla giusta distanza dalla plebaglia alla fine aveva acconsentito. "Gli scriverò. Parlerò anche con zia. Lo convinceremo a lasciar perdere questa follia." si affrettò a rassicurarli. Nonostante il pessimo carattere Rinaldo non avrebbe mai voluto darle un dispiacere, di questo era certa. "No." la voce di Cosimo risuonò secca come un colpo di frusta in quell'atmosfera tesa. "Cosa significa no? Hai per caso un'idea migliore?" lo sfidò Andrada a metà tra sorpresa e irritata. "Andrò a Firenze. Rinaldo è un idiota ma su una cosa ha ragione: ho sbagliato a scappare in campagna con la coda tra le gambe. Sono venuto meno alle mie responsabilità e lui ha semplicemente colto al volo l'opportunità che gli ho offerto su un piatto d'argento.” Stringeva i pugni così forte che gli erano sbiancate le nocche e una vena gli pulsava insistentemente sul collo. Non le diede il tempo di rispondere e si rivolse al ragazzo. “Non so quanto avevate pattuito tu e Marco Bello ma penso che questi basteranno. Puoi andare.” Gli disse con indifferenza allungandogli un fiorino d'oro. Lui spalancò gli occhi per lo stupore e diede un morso alla moneta incredulo. “M…mio signore, sono già stato pagato in anticipo, non mi dovete nulla.” Spiegò senza riuscire a celare un certo rammarico. Cosimo si limitò a rivolgergli un gesto distratto. “Prendili e vai, la strada per Firenze è lunga.” Il ragazzo non se lo face ripetere due volte, prese per le redini il suo povero ronzino e se ne andò a grandi passi dopo aver rivolto a tutti inchini e riverenze. Quasi saltellava per la gioia. Il marito di Andrada fece per avviarsi verso l'ingresso ma lei lo bloccò immediatamente. “Dove vai ora?! Io non ho finito. Mi stai dicendo che vuoi tornare a Firenze?! Ma le leggi le lettere di Marco Bello? Lì ormai ci sono solo morte e desolazione, la diffusione del morbo ha raggiunto dimensioni impensabili.” Gli gridò contro. Capiva i suoi impegni politici e cosa avrebbe significato perdere il suo posto tra i Dieci ma era assolutamente fuori discussione che si esponesse in quel modo al pericolo. La sorte li aveva già graziati molte volte ma non potevano certo giocare con il fuoco in eterno. Il maggiore dei Medici nel frattempo era tornato sui suoi passi: ora si trovava a pochi centimetri da lei e la guardava dritto negli occhi con quei frammenti di ghiaccio che aveva incastonati sul viso. “Devo andare, Andrada. Non si tratta solo di politica. Sono settimane che non riesco a dormire al pensiero di aver lasciato la mia città in un momento come questo. Dei Dieci solo cinque sono ancora lì. Cerca di capire, non posso continuare a starmene qui con le mani in mano.” Il tono della sua voce si era abbassato diventando quasi una supplica. La giovane donna sapeva che tutto ciò di cui lui aveva bisogno in quel momento era il suo appoggio ma non ce la faceva proprio ad accettarlo. Erano passati soltanto pochi mesi dall'incendio, il terrore che aveva provato all'idea di averlo perso per sempre era ancora troppo vivo nei suoi ricordi. L'aveva vegliato per giorni e giorni mentre combatteva tra la vita e la morte e ora le stava chiedendo di accettare che lui si gettasse volontariamente nelle strade di una nuova Dite. “No. Te l’ho detto: parlerò con mio zio. Sistemerò tutto. Non puoi andare, non posso perdere anche te Cosimo. Non posso.” Disse tutto d'un fiato afferrandogli il colletto della camicia. “Se partissi ora, non potresti più tornare fino alla fine, lo sai bene. Rischi di perderti la nascita di tuo figlio e non puoi, non puoi lasciarmi proprio ora. Ne abbiamo parlato e riparlato. E se succedesse di nuovo? Non possiamo separarci, dovrei seguirti a Firenze.” Si rendeva conto di giocare sporco facendogli pesare la loro paura di perdere anche quel bambino ma non gli avrebbe permesso di esporsi in quel modo. Cominciava a girarle violentemente la testa e dovette anche sbiancare visibilmente per portare Lorenzo a intervenire in una conversazione come quella. “Andrada, non fare così. Se tu stai male fai soffrire anche il bambino, cerca di tranquillizzarti. Entriamo dentro, lì potrai sederti e potrete parlare. Non agitarti in questo modo, ti prego, e abbi fiducia in Cosimo. Non è uno sprovveduto e non si esporrebbe mai al pericolo inutilmente, starà attento.” Le sue parole avrebbero dovuto suonare rassicuranti ma era chiaro come la luce del sole che nemmeno lui era d'accordo con quella scelta e che era preoccupato. “Cerca di capirlo. Ti comporteresti allo stesso modo al suo posto, non puoi negarlo. So come ti senti, credimi, ma sai meglio di me quali sono i sacrifici che una vita come la nostra comporta.” Gli diede man forte Selene accarezzandole dolcemente la schiena. Né lei né Cosimo riuscirono a dire altro perché in quel momento stesso Piccarda cadde al suolo con un tonfo sordo e tutti si voltarono a guardarla sconvolti. Andrada si trovava proprio accanto a lei e svenendo per poco non l'aveva travolta quindi fu lei la prima ad accucciarsi accanto al suo corpo. Mentre le spostava l'alto colletto dell'abito vedovile agli occhi di tutti si palesarono due bubboni infetti. La peste li aveva raggiunti, fu l'unico pensiero che la giovane riuscì a formulare. Attorno a lei scoppiò il chaos. Le sembrò di udire la voce di Selene urlare il suo nome mentre due forti braccia la sollevavano di peso per allontanarla il più in fretta possibile da lì.
Angolo autrici:
Chiediamo umilmente venia. Avevamo promesso di pubblicare ieri sera ma siamo dovute uscire all'ultimo momento. Scusate, scusate, scusate. In foto potete ammirare Villa Colchide. In realtà si tratta di una villa veneta e il nome è frutto della nostra fantasia.
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I Medici
ФанфикSelene Salviati e Andrada de' Albizzi non potrebbero essere più diverse: popolana l'una, nobile l'altra; fragile e ingenua l'una, forte e coraggiosa l'altra. Eppure le loro vite saranno destinate a incrociarsi quando entrambe entreranno in contatto...