"Dire addio al passato"

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Cosimo era convinto di aver trascorso nella sala del consiglio dei Dieci di Balia più tempo della sua vita che in qualunque altro luogo. Sapeva razionalmente che, avendo cominciato a frequentarla in modo assiduo solo dopo la morte del padre, ciò non era assolutamente possibile ma non riusciva comunque a togliersi dalla testa quell'idea deprimente. Non che fosse un brutto ambiente, tutt'altro. Il soffitto interamente affrescato, il pavimento mosaicato e le quattro statue di marmo raffiguranti rispettivamente Firenze come una giovane e bellissima fanciulla con le braccia e i capelli pieni di fiori, l'Arno come un uomo barbuto semisdraiato che reggeva una cornucopia, un'allegoria della Giustizia e una della Saggezza, nell'insieme davano all'ampia stanza un aspetto maestoso. Erano le persone sedute attorno al grande tavolo di cipresso a rendere seccante la permanenza in quell'ambiente. Ora soltanto sei dei Dieci sedevano nei loro comodi scranni di velluto azzurro ma, nonostante ciò, non vi erano posti vuoti perché a loro si erano uniti il Capitano di Piazza, il Podestà e due Giudici di Rota. Solitamente gli uomini che ricoprivano tali cariche che concernevano l'amministrazione della giustizia non erano ammessi alle loro sedute prettamente politiche ma situazioni come quella rendevano le norme parecchio flessibili quindi, onde evitare di perdere tempo ed energie per l'elezione dei quattro membri assenti, perché morti o perché fuggiti, il loro posto era stato assegnato in via provvisoria agli uomini che in ordine di autorità e prestigio erano secondi solo ai Dieci di Balia stessi nella Costituzione della Repubblica. Inizialmente Cosimo non era stato affatto favorevole a quella proposta quindi naturalmente Rinaldo de' Albizzi vedendolo contrariato aveva fatto tutto il possibile per far approdare in porto il progetto. Conoscendoli meglio tuttavia l'ex Dittatore aveva trovato nel Capitano di Piazza e nel Podestà due importanti appoggi nelle discussioni del consiglio e il suo avversario aveva avuto più occasioni per pentirsi della propria insistenza. Il primo era un giovane della più antica aristocrazia romana ma di ideali fortemente egualitari e liberali con una mente acuta e una lingua tagliente mentre il secondo era un uomo vicino ai cinquanta ma ancora robusto come un toro e con un accento nordico rigido quasi quanto la sua morale militaresca dell'onore e della giustizia tipica della regione germanica da cui proveniva. La legge infatti prescriveva che il potere giudiziario venisse posto nelle mani di uomini che provenissero da fuori Firenze in modo da garantire il più possibile l'imparzialità, non avendo avuto questi uomini il tempo di stringere alleanze. "Questa Repubblica è marcia fino alle radici! Che senso ha intestardirsi a mantenere intatta la facciata quando ormai dietro di essa l'edificio cade a pezzi? La vergogna non sta nel mutare forma di governo in modo legale e secondo quello che è anche il bene del popolo ma nel lasciarsi corrompere fino a far degenerare completamente e in modo disgustoso una costituzione che all'origine è pura e giusta." Inveì quest'ultimo sovrastando tutti gli altri con la sua voce potente. "E quale forma di governo ritieni più giusta come alternativa alla nostra secolare e splendida Repubblica? La democrazia di stampo ateniese che generò in passato ancora più corruzione e demagogia o forse una monarchia che finirebbe per diventare inevitabilmente tirannide? Forse nella barbarica terra da cui provieni la civiltà non è ancora giunta ma qui da noi abbiamo studiato la storia e conserviamo nelle nostre biblioteche i volumi della Repubblica di Platone e l'opera di Polibio ed entrambi designano la nostra come la struttura politica migliore e più longeva in quanto racchiude tutte le altre in sé." ribatté con astio Strozzi. "Magari potremmo inventarne una nuova proprio in virtù delle conoscenze che ora possediamo rispetto al passato..." L'intervento di Cosimo mise immediatamente a tacere tutti gli altri, era strano come in breve tempo tutti, perfino i suoi avversari loro malgrado, erano giunti a nutrire un rispetto particolare nei suoi confronti. La sua autorità era andata sempre crescendo e ora benché avesse diversi nemici nessuno osava fronteggiarlo apertamente oltre un certo limite, neppure Rinaldo, e quando lui prendeva la parola tutti tacevano fino alla conclusione del suo discorso. Non fu quindi una voce a interromperlo ma il rombo di un tuono seguito a breve distanza da un ticchettio soffocato che spinse tutti ad accalcarsi in maniera disordinata di fronte alle finestre della sala con espressioni di stupore. Erano mesi che Firenze non vedeva la pioggia. Cosimo non provò neppure a farsi strada tra gli altri per guardare dalle ampie vetrate ma uscì di corsa, scendendo due gradini alla volta. La pioggerella nel frattempo si era trasformata in un vero e proprio temporale e sentire le fitte gocce cadere sulla pelle accaldata del viso, sul capo, sulle spalle e sulle braccia aperte fu come rinascere. Fu un attimo e la città fantasma che aveva conosciuto in quei giorni gettò via il velo da lutto che l'aveva ricoperta, voci allegre e canti spezzarono il silenzio e ben presto le strade e le piazze si riempirono di persone. Nessuno sembrava più temere nulla di fronte a quello che sembrava un vero e proprio miracolo. Il giovane prese a camminare per quelle strade che lo avevano visto nascere e crescere senza una meta precisa con i capelli fradici e gli abiti incollati addosso. Non aveva mai visto i fiorentini così, tutti gli sorridevano e lo salutavano ad ogni passo, una bambina magra come un chiodo e che non poteva avere più di sei anni gli allungò un fiore azzurro come quelli che sua moglie aveva piantato sulla tomba del loro bambino mai nato. Aveva lunghi riccioli neri e una pelle chiara come porcellana e lui, incantato, non esitò ad accettare il dono. Era stanco di avere paura, il terrore aveva strappato troppo tempo alla sua vita. In men che non si dica si ritrovò di fronte alle rovine annerite della sua casa senza neppure ricordare come vi fosse giunto. La pioggia stava lavando via anche la cenere incrostata e il marmo e il vetro in frantumi che aveva coperto brillavano tra quelle macerie scure come le stelle nella volta celeste. Improvvisamente i suoi passi divennero più decisi e quando finalmente si trovò di fronte alla piccola lastra che segnava la tomba di suo figlio e si fu inginocchiato di fronte ad essa capì che non aveva affatto vagato senza meta, il suo era stato un ritorno. Nonostante la loro lunga assenza e l'aridità, i fiori azzurri fratelli di quello che stringeva in mano continuavano a splendere come l'ultima volta che li aveva visti. Qualcuno doveva essere andato lì ogni giorno a prendersene cura. In mezzo ad essi vi era una costruzione di ferro battuto che rappresentava un altro di quei fiori di cui non riusciva a ricordare il nome per quanto si sforzasse. Era certo di non aver mai visto prima quell'oggetto ma non se ne curò. Poggiò la testa sulla fanghiglia accanto al punto in cui immaginava fosse il corpo di suo figlio. Il giorno precedente era giunto un messo con la notizia che sua madre aveva lasciato questo mondo e nonostante fosse consapevole dal primo istante in cui le avevano diagnosticato la peste che non l'avrebbe mai rivista, neppure da morta, aveva pianto singhiozzando come un bambino per ore stringendo in mano la lettera in cui suo fratello gli raccontava degli ultimi minuti di vita della donna che li aveva messi al mondo. Sperava che nell'altro mondo lei e Giovanni fossero per il suo bambino senza nome dei nonni migliori rispetto ai genitori che erano stati per loro. Stava ancora lì quando a notte fatta Marco Bello lo raggiunse preoccupato e lo condusse, quasi trascinandolo di peso, all'asciutto.

La pioggia continuò senza sosta per tre giorni e quando, al quarto, i nuvoloni abbandonarono i cieli di Firenze la peste era scomparsa misteriosamente e d'improvviso così come era comparsa. Cosimo stesso appena si fu ripreso dal brutto raffreddore che si era pienamente meritato per essere rimasto per ore steso per terra sotto la pioggia torrenziale, fece organizzare dei grandiosi funerali pubblici. Fu più che altro un evento simbolico perché i corpi di coloro che erano morti a causa del morbo erano stati tutti bruciati di volta in volta per questioni di sicurezza ma sentire declamati i nomi dei propri cari come quelli di eroi e mangiare alle mense tributate in loro onore sollevò notevolmente l'umore delle persone. L'unico modo per continuare a vivere è dire addio al passato, lasciarlo andare nel modo giusto. Cosimo rimase a lungo a guardare allontanarsi galleggiando i fiori che erano stati gettati nell'Arno come estremo omaggio, erano moltissimi e avevano trasformato il fiume placido in un tripudio di colori. Erano quasi spariti dalla sua vista quando finalmente anche lui si decise a lasciar cadere in acqua il fiordaliso -era questo il suo nome- che la bambina gli aveva donato e che miracolosamente, benché un po' stropicciato, si era conservato.

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