"Quella notte maledetta da Dio"

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POV: SELENE

Da quando Lorenzo era partito, Selene aveva imparato a dormire da sola. Il buio pesto della camera che, privata di lui, pareva ancora più sinistramente grande, si mescolava in quella cupa notte dicembrina agli inquietanti tuoni che sconquassavano Palazzo de' Medici fin nelle sue fondamenta e ai fulmini che serpeggiavano nel cielo oscuro. Le minacciose nuvole nere che generavano quei fenomeni però non provocavano il minimo accenno di pioggia e questo rendeva l'atmosfera ancora più tenebrosa. Il sonno di Selene era profondo, privo di sogni e sospeso in quella realtà irreale abitata da desideri dell'inconscio e spettri del passato che è la dimensione onirica, ma quando la giovane spalancò gli occhi e guardò in faccia il terrore più puro era sveglia come se non si fosse mai addormentata. Non riuscì ad illudere il suo cuore e la sua mente nemmeno per una frazione di secondo: in un istante, l'istante più straziante, capì che quelle grida laceranti che l'avevano strappata via dal porto sicuro del riposo dei sensi appartenevano ad Andrada. Alla sua Andrada. Selene non capì mai, per il resto dei suoi giorni, quale forza sconosciuta la condusse attraverso la sua stanza scura e improvvisamente troppo stretta, non seppe mai come riuscì ad aprire la porta e a precipitarsi senza luce attraverso i lunghi corridoi del Palazzo che le erano sempre sembrati i sentieri marmorei del posto che chiamava con coinvolgimento e passione "casa" e che ora, invece, apparivano come ostacoli maledetti che la separavano da lei, da quella persona che in pochi mesi era diventata sua sorella, il sole che di giorno illuminava con la sua forza il cielo che lei, la luna, rischiarava di notte con la sua malinconia. Non si domandò razionalmente perchè Andrada stesse gridando: non poteva impiegare neanche una minima parte delle sue forze a riflettere su cosa potesse provocare quelle grida così disumane, così abissali, così feroci, così disperate perchè altrimenti sarebbe crollata. Mentre correva guidata solo dall'istinto però nella sua mente si figurarono infinite immagini, si sovrapposero timori e paure, vide l'esercito di Ravenna e Lucca abbattere le mura difensive di Firenze e bruciare la città ma lei in cuor suo sapeva ma non voleva capire che c'era un unico motivo per cui una donna potesse gridare così. Fu solo quando arrivò davanti alla porta della stanza di Cosimo e Andrada che uno spiraglio di luce illuminò il suo volto pallido e le persone intorno a lei. Si fermò e si accorse che non respirava forse da quando si era svegliata: i polmoni le stavano scoppiando e il cuore era come impazzito nel tentativo ribelle di combattere la mancanza di ossigeno. Inspirò piano e poi espirò, muovendosi con una lentezza disarmante che contrastava fatalmente con la velocità di poco prima. La porta davanti a lei era socchiusa ma la ragazza attraverso di essa non vedeva altro che ombre muoversi concitate e urlare ordini le une alle altre. Sentiva ancora la voce di Andrada gridare e ora le era così vicina che quegli urli le trapassarono la mente e il cuore. E allora capì. Lentamente abbassò lo sguardo sulla sua pancia e sollevò la mano per appoggiarvela sopra. Poi alzò gli occhi e tornò a fissare la porta. Non ci avrebbe mai creduto, non poteva crederci. Impose a se stessa che non era vero. In quel momento una persona uscì di corsa dalla stanza e le sbattè contro. Era Michela. Fu solo grazie a lei che la giovane Medici si riscosse, ma solo in parte, e si accorse che il bambino si stava agitando dentro il suo corpo. "Selene, che cosa ci fai qui? Ti prego và via!" Disse la serva disperata rendendosi conto della presenza della moglie di Lorenzo. Quest'ultima aprì la bocca e parlò per la prima volta in quella notte maledetta da Dio. "Michela, che cosa sta succedendo?" Chiese con una voce spettrale che non le apparteneva. Era la voce del demone del terrore. La servetta ne restò atterrita e non potè fare altro che dire alla sua signora quello che lei voleva sentirsi dire. "Madonna Andrada sta avendo un aborto, sta perdendo il suo bambino..." sussurrò cercando a fatica di trattenere le lacrime. Poi ricominciò a pregare Selene di andare via mentre decine di ancelle e serve correvano loro accanto, ignorandole, ma la ragazza aveva di nuovo tagliato ogni contatto con il mondo esterno. Con la solita lentezza di quella notte si voltò verso destra a guardare un'alta finestra e si accorse che a rischiarare tutto intorno a lei, oltre alle fiaccole precipitosamente accese dagli inservienti del Palazzo, erano i frequenti fulmini che attraversavano impassibili il vetro. Li guardò e il suo volto cinereo fu bombardato dalla violenza di quelle scariche elettriche. Selene non sentiva niente, non capiva niente, non percepiva niente. Si accorse solo che aveva cominciato a camminare verso la porta: voleva andare da sua sorella. Era l'unica cosa che sentiva dentro di sè, come un imperativo categorico, null'altro. La voce di Michela che le gridava di non farlo le giungeva ovattata. Fu solo quando ormai la sua mano stava per appoggiarsi sul legno intarsiato dell'entrata della camera di Andrada che qualcuno la prese di peso e la spinse via, contro il muro. "NON ENTRARE SELENE! NON FARLO!" Gridò una voce maschile possente e decisa. E fu solo allora che, finalmente, Selene si risvegliò. Era Marco Bello. L'aveva allontanata dalla porta appena in tempo. La ragazza lo guardò con gli occhi sconvolti e scoppiò a piangere, poi si aggrappò a lui con tutte le sue forze cercando di spingerlo via. "Marco lasciami passare, non mi impedirai di andare da lei...lasciami andare!" Gridava, fuori di sè. Ma Marco era più forte e la trattenne lì. Le grida strazianti di dolore di una madre che stava perdendo il suo bambino si unirono alle grida disperate di una sorella che non poteva stringere la mano dell'altra nel momento più brutto della sua vita. Selene resistette a lungo, anche quando le urla angoscianti di Andrada si placarono, cercando di spingere via suo fratello ma con sempre minore intensità. Quando tutte le sue forze cedettero lui la strinse a sè soffocandone le lacrime fra le pieghe della camicia e abbracciandola come non aveva mai fatto prima.

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