"Inferno"

415 15 2
                                    

POV: ANDRADA 

Lo sforzo di alzarsi dal letto e chiudere a chiave la porta della stanza dopo che finalmente Cosimo e Selene furono usciti l'aveva a tal punto spossata da costringerla ad accasciarsi lì di fronte ignorando il dolore pulsante che la ferita non completamente medicata tra le sue gambe continuava a provocarle. Quel dolore però era infinitamente trascurabile rispetto alla voragine che sentiva di avere nel petto nel punto esatto che, solo poche ore prima, occupava il suo cuore. Con faticosa lentezza riuscì a mettersi stesa in posizione fetale sul marmo freddo della stanza e ad abbracciarsi le ginocchia con la testa tra le gambe nude e pallide ma chiazzate del suo stesso sangue ormai secco mentre lacrime silenziose le scorrevano incontrollabili sul volto senza che la ragazza se ne rendesse quasi conto dal momento che un nuovo e bene accolto sprazzo di oblio la stava ghermendo nei suoi artigli. Rimase in quella posizione tanto a lungo che il sole era ormai salito in cielo da ore raggiungendo il suo apogeo e Cosimo era tornato già tre volte a bussare alla porta prima con timidezza e poi con sempre maggiore insistenza, accompagnando quel fastidioso rumore con parole di conforto dal tono supplichevole che Andrada tuttavia non riusciva a comprendere come se improvvisamente l'amato avesse cominciato a parlare in una lingua a lei del tutto estranea, quando finalmente tornò abbastanza lucida da alzarsi e avvicinarsi con foga all'ampio specchio del bagno adiacente alla stanza. La donna che le restituiva uno sguardo allucinato da quella lastra di vetro non era lei: era una folle baccante in prenda al delirio per la quale non provava alcuna compassione, era un guscio vuoto, un corpo senz'anima totalmente inutile dal momento che non era riuscito a svolgere il compito che qualsiasi donna era in grado di assolvere e non meritava di continuare a inquinare il mondo con la sua nauseante presenza. Presa da un impeto di cieca ira verso se stessa che non avrebbe mai ritenuto di poter provare cominciò a colpire con i pugni quel suo ventre portatore di morte anziché di vita e poi passò a lacerarsi senza pietà con le unghie ogni sprazzo di pelle a portata di mano: prima le gambe, poi le braccia e infine passò al volto. Si ferì più e più volte perché le ferite del corpo le permettevano di attenuare almeno in parte quelle dell'anima e perché le sembrava che il sangue fresco che vedeva ormai scorrere in abbondanza la stesse in qualche modo purificando. Quando alzò nuovamente lo sguardo il suo volto riflesso non era altro che una maschera scarlatta ma non si sentiva affatto meglio perché al dolore ora si era aggiunto l'orrore e la consapevolezza di ciò che era riuscita a fare a se stessa. La violenza e la crudeltà che trasparivano da quella pallida immagine mutilata erano tanto intensi da riuscire a riscuoterla da quel folle torpore. Si sentiva un mostro e in una nuova e intensa ondata di rabbia incontrollabile tirò giù con forza lo specchio facendolo schiantare al suolo con un fragore metallico che la fece rabbrividire. Le schegge volarono tintinnando per la stanza da bagno ma lei non si mosse di un millimetro, non chiuse nemmeno gli occhi, e rimase a guardare il vetro in frantumi a lungo, come incantata dai giochi di luce che i raggi del sole pomeridiano producevano quando vi entravano per caso in contatto. Non si rese nemmeno conto di aver raccolto una scheggia più grande delle altre e di averla stretta convulsamente tagliandosi in profondità il palmo della mano finché non sentì il tocco, tanto gelido da far male, del tagliente vetro contro la pelle febbricitante e martoriata del suo collo. Quanto crudele e arbitrario poteva essere un Dio che toglieva la vita a una creatura pura e innocente come il suo bambino mai nato ma lasciava in vita un essere immondo e abominevole come lei? Fu il primo pensiero coerente che riuscì a formulare da quando era andata a dormire in quella notte maledetta. O forse continuare a vivere non era un privilegio concessole da Lui perché totalmente ingiusto, forse era la sua punizione. Non appena quell'idea si sviluppò nella sua mente la travolse con la sua ovvietà ed evidenza. Ma cosa aveva mai potuto fare di tanto orribile da meritarla? Non riusciva proprio a capirlo, forse semplicemente non le era dato sapere. Di una cosa però era certa: non sarebbe rimasta a guardare. E, se era vero che gli uomini potevano autodeterminarsi anche solo in parte, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non essere la semplice marionetta di quel terribile scherzo divino. Era pronta a finire senza rimpianti nell'Inferno, sempre che esistesse davvero, perché niente poteva essere peggio di quello che stava sopportando e di questo almeno era completamente sicura. Non servivano il fuoco e il ferro per torturare in eterno un'anima, non servivano demoni e mostri infernali. Non c'era bisogno di un'altra dimensione o di un mondo ultraterreno, bastava molto meno. Il Tartaro era ovunque, doveva essere proprio il fatto che potesse infestare in qualsiasi momento anche il luogo che più si amava e in ci si sentiva più sicuri la caratteristica che lo rendeva tanto terribile e temibile. Aveva ormai deciso e stava premendo la punta di quella affilata scheggia con maggiore forza nonostante le mani le tremassero in maniera violenta, quando improvvisamente un'immagine nuova le comparve di fronte agli occhi, tanto nitida da sembrare reale: era il volto straziato dal dolore di suo marito dopo l'aborto. Sul momento lei non l'aveva visto davvero, presa com'era dalla sua solitaria sofferenza, ma il suo inconscio evidentemente doveva aver registrato quell'istante e ora, in quel momento di stordimento misto a totale e autodistruttiva follia, le stava mostrando ciò che non aveva voluto vedere razionalmente: non era l'unica a soffrire. Mesi prima, anche se le sembravano passati anni e anni per quante cose erano successe nel frattempo, aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai più stata egoista, che avrebbe dato ai sentimenti e ai dolori di coloro che amava un peso almeno pari a quello che da sempre era portata a dare ai propri. Ma in quel momento aveva allontanato tutto e tutti e preferito crogiolarsi nel dolore, chiusa in quel terribile esilio autoimposto invece di accettare l'aiuto delle persone che più amava al mondo. Era stata egoista e indifferente come mai prima di allora e aveva allontanato con disprezzo l'unica persona che in quel momento avrebbe potuto davvero capirla perché stava provando, anche se solo in parte, le stesse emozioni: il padre di suo figlio. Uccidersi sarebbe stato facile, troppo facile, per lei. Ma si rendeva conto che quel semplice gesto aveva la forza di distruggere per sempre le persone che l'amavano. Morire per sfuggire al dolore era una scelta da vigliacchi, vivere sarebbe stata una scelta di gran lunga più coraggiosa e se non trovava più nulla in se stessa che la tenesse ancorata al mondo sarebbe vissuta solo per suo marito. Forse con il tempo sarebbe riuscita a trovare altre ragioni per continuare a respirare ma quella per il momento fu sufficiente a far aprire le sue dita e far cadere a terra con un suono sinistro quella scheggia. Era ormai notte fonda quando Andrada riuscì a piangere davvero: i singhiozzi le scuotevano violentemente il petto e le lacrime scorrevano come un fiume in piena sulle gote lavando via il sangue e facendo bruciare le ferite recenti. Faceva persino fatica a immettere aria nei polmoni ma fu per la prima volta da ore e ore che riuscì a respirare di nuovo davvero. Pianse e pianse ancora fino a quando, ormai esausta per le forti emozioni, per non aver bevuto o mangiato da più tempo di quanto riuscisse a ricordare e per aver perso moltissimo sangue, alla prime luci di un nuovo giorno cadde finalmente in un sonno se non proprio tranquillo, quanto meno non troppo agitato. Almeno per quella volta la vita aveva trionfato sulla morte e finché c'era ancora vita ci sarebbe sempre stato spazio per la speranza. 

I MediciDove le storie prendono vita. Scoprilo ora