POV:COSIMO
Mentre usciva da Palazzo Vecchio Cosimo si sentiva stanco, stanco fisicamente ma soprattutto stanco mentalmente. Quella vita non era affatto ciò che aveva sempre sognato per se stesso. Un artista: ecco cosa sarebbe dovuto diventare, un giramondo senza una vera meta, senza doveri e senza pensieri che andassero oltre la buona riuscita di ciò che avesse realizzato con le proprie mani. Preoccupazione ben misera dal momento che di nulla ci si può fidare come di ciò che si è realizzato personalmente, che si è toccato e modellato secondo la propria volontà con l'unica opposizione del materiale inerte che si desidera trasformare, pensò il giovane mentre si legava un fazzoletto attorno alla bocca e al naso e indossava un paio di guanti prima di montare a cavallo. Benché tutti continuassero a ripetergli che era bravo in ciò che faceva, che raramente c'era stato uno statista tanto persuasivo e un diplomatico tanto accorto e nonostante a volte si appassionasse fino allo spasimo, con enorme soddisfazione quando ciò in cui aveva messo tanto impegno riusciva come aveva sperato, e combattesse con tutte le proprie forze per ciò che considerava giusto, ogni nuova seduta dei Dieci, ogni nuova decisione era come un macigno che aggiungeva sulle proprie spalle. Cominciava a capire Niccolò Uzzano, giunto alla sua età probabilmente si sarebbe sentito come Atlante, il titano che gli dei della mitologia classica avevano costretto a reggere l'intera volta celeste sulle spalle in modo che i due amanti Urano e Gea, il Cielo e la Terra, non si ricongiungessero. Era fin troppo facile crollare e venire completamente schiacciati. Fece avanzare il cavallo al passo e non poté fare a meno di guardarsi attorno con malinconia: Firenze in quei giorni appariva deserta, non era più l'inferno che tante volte aveva immaginato leggendo le lettere di Marco Bello ma neppure la sua città caotica e variopinta. Gli era stato riferito che ormai la popolazione risultava quasi dimezzata, che gli appestati erano stati messi in quarantena nei lazzaretti e che molte case erano rimaste vuote, facili prede per le razzie di uomini senza un Dio e senza timore o che la fame aveva reso tali. Chi ancora era in vita si guardava bene dall'uscire in strada per paura del contagio, tutti avevano capito che era solo isolandosi che si poteva sopravvivere ma non sempre ciò era possibile. Il fratello di Selene in persona cavalcava dietro di lui nelle strade vuote tenendo una mano ben salda sull'elsa della sua spada e senza dire una parola, senza neppure guardarsi attorno. Era grato all'amico per non aver chiesto nulla su come fosse andato il consiglio nonostante fosse sicuramente curioso di sapere perché, benché l'essere riuscito a mantenere il suo posto tra i potenti della città era di certo una conquista importante in quel periodo travagliato, quello non era né il posto né il momento adatto per parlarne. Incontrarono due uomini della guardia cittadina che si tolsero i cappelli in segno di omaggio vedendolo passare, lui rispose con un breve cenno e rifletté su ciò che Rinaldo aveva detto quella mattina durante la sua arringa contro di lui: la guardia si era ridotta a un centinaio di uomini, la maggior parte dei quali privi di un adeguato addestramento e della necessaria disciplina, arruolati in base all'unica caratteristica di aver già contratto il morbo senza morirne e per questo aver sviluppato l'immunità. Era stato uno dei provvedimenti di cui si era occupato Albizzi stesso ma Cosimo lo riteneva un errore perché se non potevano fidarsi di coloro che avevano assoldato per far rispettare la legge e tenere in sicurezza la città come potevano sperare di tenere sotto controllo la delinquenza in una situazione tanto critica? Passarono avanti sudando nei loro abiti scuri sotto il sole cocente, l'aria era secca e il cielo terso nonostante l'autunno fosse ormai alle porte, e quando Santa Maria del Fiore comparve Cosimo dimenticò qualunque altra cosa stesse pensando. Non la vedeva da settimane e nonostante fosse giunto a Firenze da diversi giorni non aveva ancora trovato l'occasione per recarsi in piazza della Cattedrale dal momento che non doveva più attraversarla ogni volta per tornare a casa. Persino in quella città-fantasma che a stento riusciva a conciliare con il suo ricordo di Firenze quello era un punto fisso, un porto sicuro. Sempre uguale a se stessa, sempre tanto bella da togliere il fiato. "Marco, voglio passare a scambiare due parole con mastro Brunelleschi. Sicuramente vorrà sapere come stanno sua moglie e i suoi figli e dobbiamo parlare della Cupola, i lavori sono fermi da troppo tempo. Non sei costretto a venire con me, da qui ci vogliono solo pochi minuti fino alla villa e hai visto tu stesso che non si vede un'anima in giro, non correrò alcun rischio." disse alla sua guardia più fidata con fermezza pur sapendo che il suo amico non gli avrebbe mai dato retta, la verità era che aveva bisogno di stare per conto suo per un po', di lasciare la mente libera di soffermarsi sulla preoccupazione per le condizioni di sua moglie, che, nonostante fosse stata dichiarata fuori pericolo dal punto di vista del contagio, restava comunque a rischio per altri versi e sulle disperate condizioni in cui versava sua madre. Sapeva che le possibilità di rivederla ancora viva o per lo meno di tornare in tempo per prendere parte al suo funerale erano ben poche e proprio per questo prima di lasciare Villa Colchide era passato nella camera in cui lei giaceva per dirle addio. Piccarda non era mai stata una madre particolarmente affettuosa, per lo meno non da quando Cosimo riuscisse a ricordare, e nell'ultimo periodo era andata sempre peggiorando chiudendosi tra le mura del proprio egoismo e della ferma decisione di perseguire, per quanto in suo potere e senza scrupoli di alcun tipo, quello che riteneva il bene della famiglia. C'erano stati diversi periodi, a partire dalla sua prima giovinezza, in cui era giunto alla convinzione di odiarla, ma era pur sempre sua madre e nonostante tutto non poteva fare a meno di rimanere turbato alla vista della sua sofferenza o di fronte alla prospettiva della sua imminente e inevitabile morte. Quando era uscito da quella stanza aveva sentito un nuovo peso aggiungersi al carico spirituale che già portava. "Messer Medici!" il richiamo di una voce piuttosto nota lo risvegliò da quei cupi pensieri. "Ho sentito del vostro arrivo qualche ora fa e stavo giusto pensando di presentarmi a casa vostra ed ecco che voi comparite qui. Qualcuno griderebbe al miracolo." Era sempre difficile rendersi conto di quando Filippo Brunelleschi stesse parlando seriamente o facendo dell'ironia perché si rivolgeva al proprio interlocutore sempre con serietà e con il medesimo tono grave. "Mi sembra di avervi detto diverse volte di chiamarmi semplicemente Cosimo. Mi sbaglio?" rispose lui beffardo prima di abbracciare il genio che per lui stava innalzando una di quelle opere che, come gli archi trionfali romani o il Colosseo, avrebbe sfidato lo scorrere dei secoli indenne. Comunque l'uomo ignorò beatamente la sua battuta e fece strada a lui e Marco Bello verso l'ingresso di Santa Maria del Fiore. Nell'enorme spazio vuoto non era rimasta traccia dei lettini che avevano ospitato tante persone dopo l'incendio che aveva raso al suolo un intero quartiere pochi mesi prima e anche il cantiere, riaperto pochi giorni dopo il trasferimento di coloro che avevano preso il morbo nei lazzaretti e di coloro che erano ancora sani in case rimaste vuote, ma che a sua volta era rimasto in funzione soltanto per pochi giorni prima che la nuova emergenza della peste facesse fermare ancora una volta i lavori, era tristemente abbandonato. Gli attrezzi degli operai, i materiali, le carte con il progetto, tutto era ancora lì coperto da qualche sporadica ragnatela e da un sottile strato di polvere. In un angolino, proprio vicino alla navata, per terra c'era un vecchio materasso con sopra una coperta spiegazzata e accanto un tavolino traballante con sopra un piatto di avanzi e qualche foglio con su schizzi e annotazioni. Nell'insieme mostrava chiaramente che qualcuno vivesse lì e l'ex dittatore aveva un'idea ben precisa su chi potesse essere quel qualcuno. "Mancava così poco ormai. Pochi mesi di lavoro intensivo al massimo pensavo e invece no. Perché il mondo mi cospira contro, se non fossi così straordinariamente speciale crederei che Dio stesso ce l'abbia con me. Non dormo quasi più, l'idea che la mia opera più importante, la cosa per cui sarò ricordato dai posteri, giaccia qui mi ossessiona. Questo maledetto morbo potrebbe non finire mai, potrebbe uccidere tutti quelli che può e costringere gli altri ad andarsene per quanto ne sappiamo e io ho bisogno di finire a costo di lavorare da solo fino a schiattare." Esordì con una nuova intensità quasi febbrile fissando Cosimo con occhi allucinati e afferrandogli con forza sorprendente il colletto della casacca tanto da mettere in allarme Marco Bello. "Ora dovete calmarvi." Ordinò infatti la guardia con durezza avvicinandosi al contempo ai due. "No. Non preoccuparti, non mi farebbe mai del male." Lo bloccò immediatamente il maggiore dei Medici prima di rivolgersi all'architetto. "Avete perfettamente ragione. Sono venuto qui proprio per chiedervi di arruolare tutti gli uomini in grado di lavorare e di rimettere in funzione il cantiere. So che ci sono stati danni e che ora dovrete buttare giù una parte di ciò che è stato già fatto per ricostruire ma i fondi non vi mancheranno, Filippo, e sono certo che entro la fine del prossimo anno riuscirete a inaugurare il vostro capolavoro. Fino a quando l'emergenza non sarà finita manterremo un numero stabilito di operai e verrete coadiuvato da un guaritore che controllerà ogni mattina prima dell'inizio dei lavori le condizioni fisiche di ogni uomo per essere certi che non abbiano nel frattempo contratto la peste. Sarà faticoso ma voi siete sicuramente all'altezza."
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I Medici
FanfictionSelene Salviati e Andrada de' Albizzi non potrebbero essere più diverse: popolana l'una, nobile l'altra; fragile e ingenua l'una, forte e coraggiosa l'altra. Eppure le loro vite saranno destinate a incrociarsi quando entrambe entreranno in contatto...