Capitolo 90

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A fine turno Jacopo si sentiva euforico, carico, pieno di vita. Avrebbe scalato una montagna se solo gli fosse stato richiesto.

Aveva il cuore che saltava nel petto, felice, quasi a compiere dei triplici salti mortali senza bisogno di una rete. E avrebbe voluto saltellare anche lui, se solo non si fosse vergognato avrebbe percorso la strada che lo separava da casa con saltelli e giravolte.

Era felice e leggero come non si sentiva da un po', come se potesse d'un tratto librarsi in volo senza pesi né pensieri opprimenti.

Ancora una volta il merito era tutto di Simone, era lui ormai che bilanciava l'andamento emotivo della routine del più piccolo, era lui che faceva il buono e il cattivo tempo. Ed era lui che, pur senza saperlo, gli aveva dato il coraggio per non aver paura.

Perché Jacopo aveva sempre avuto paura, di sé stesso più che del mondo circostante. Paura di non essere abbastanza, di non sapersi rapportare, di distruggere un'amicizia per un sentimento non corrisposto.

Invece Simone gli aveva dato una speranza. Non gli aveva detto molto ma aveva parlato coi gesti. Gli aveva parlato con quella carezza, con gli occhi verdi che lo guardavano con affetto, con quella promessa non sancita.

"Se per poter continuare con te devo aspettare, aspetterò" gli aveva detto.

Jacopo non sapeva bene cosa aspettarsi dopo quelle parole ma sapeva che Simone non lo avrebbe lasciato indietro, qualsiasi cosa volesse intendere.

In quella frase Jacopo aveva trovato la forza di sperare, di credere che qualcosa potesse cambiare.

Non si sarebbe più tirato indietro, non avrebbe ceduto alla voglia di scappare o alla paura che gli faceva dire cose stupide nel momento meno opportuno, avrebbe combattuto contro se stesso piuttosto.

Arrivò a casa in men che non si dica, quasi senza accorgersene, spalancò la porta d'ingresso depositando sul basso tavolino da caffè un sacchetto con alcuni dolcetti donatigli, come ormai da consuetudine, dalla madre di Simone e si lanciò a peso morto sul divano accanto alla madre.

Lei gli sorrise con dolcezza e lui le diede un bacio sulla guancia posando poi il capo sulla sua spalla.

«Ti trovo particolarmente allegro» ridacchiò lei «mi sbaglio?»

«Non ti sbagli»

«E a cosa dobbiamo tutto questo entusiasmo?»

Jacopo afferrò un biscotto porgendo poi il sacchettino a sua madre.

«È una risposta implicita o devo dedurre che intendi sviare il discorso?»

Jacopo scrollò le spalle «nessuna delle due»

«E allora? Devo forse cavarti le parole di bocca?»

Uno sbuffo e un altro biscotto furono l'unica risposta.

«Amore, io penso sia giunto per noi il momento di una chiacchierata» disse stranamente seria.

«Vuoi spiegarmi come nascono i bambini?» chiese Jacopo con leggerezza «lo sai che non ho di questi problemi»

«Nemmeno io, sono troppo giovane per fare la nonna»

Jacopo ridacchiò.

Adorava sua madre, gli era sempre stata accanto e aveva ascoltato le sue confessioni senza mai fare una piega, senza giudicarlo, indicandogli, piuttosto, la strada migliore da seguire. Erano come due amici, lei aveva sempre saputo come prenderlo, come comprenderlo e sostenerlo, lui l'amava pazzamente.

«Seriamente, dobbiamo parlare di questa situazione» disse la donna indicando i biscotti.

«Mi vedi ingrassato?» continuò Jacopo mantenendo un tono giocoso.

«Ti vedo distratto, troppo» lo riprese.

«Non mi sembra, sono molto concentrato, specialmente sul lavoro»

«Ecco, appunto»

«Cosa?»

«Stai perdendo di vista le cose importanti. Non fraintendermi» disse «è bellissimo vederti sereno e sorridente ma questa esperienza ti sta completamente assorbendo. Eravamo d'accordo sul fermarti un attimo, sul prendere del tempo per capire ma a me sembra tu abbia completamente accantonato l'università»

«Non è così»

«E dimmi, da quand'è che non prendi in mano un libro, da quand'è che non vai all'ambulatorio, da quanto non ti fermi a pensare al tuo futuro?»

Jacopo non rispose; non ebbe nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo perché, in un certo senso, sapeva di essere nel torto. Era consapevole di aver totalmente accantonato quella parte della sua realtà ma non poteva farsene una colpa. Alla sala da tè si era ritrovato, aveva riscoperto cosa significava star bene, ridere, fidarsi di chi gli stava accanto. E poi aveva scoperto Simone e i suoi pensieri erano convolati tutti lì.

«Non te ne sto facendo una colpa, sia chiaro, ma non mi piace questo atteggiamento. Dovresti ricominciare a pensare alle cose che contano e riportare i piedi per terra»

«Non mi sembra di aver fatto qualcosa di stupido in questo periodo»

«No, certo, ma nemmeno di costruttivo»

«Sto solo lavorando, sai com'è» ribatté con stizza.

«E lo apprezziamo, non sto dicendo il contrario, però prima di entrare in quel negozio i tuoi piani erano diversi»

«Non è un negozio!» brontolò «e poi i piani son fatti per essere stravolti»

«Che intendi dire?»

«Niente ma'» disse sbuffando, allontanandosi verso le scale.

«Jacopo!» tuonò sua madre «ti sto parlando, dove pensi di andare?»

«Abbiamo finito no?»

«No. Ti abbiamo dato fiducia ma adesso non so quanto abbiamo fatto bene»

Jacopo si bloccò. Quelle parole lo avevano colpito come una doccia gelida.

I suoi genitori si fidavano di lui, si erano sempre fidati. Perché lo conoscevano, perché sapevano che Avrebbe fatto la scelta giusta, che aveva la testa ben piantata sulle spalle.

E adesso invece? Cos'era cambiato?

Avrebbe voluto dire qualcosa ma quello che disse non fece altro che peggiorare le cose.

«Tu non capisci»

«Io non capisco cosa?»

«Me, adesso»

«Spiegamelo, ti ascolto»

«Non ci riesco»

«Il problema è proprio questo» disse la donna con un certo risentimento «non sai nemmeno tu cosa vuoi, e forse la colpa è mia che te le ho date tutte vinte, ma adesso è tempo che le cose cambino, devi prenderti le tue responsabilità e fare una scelta: vuoi continuare o scegli di mollare?»

«Devo dirtelo adesso?» domandò Jacopo ostentando una sicurezza che non sentiva di avere.

«Al più presto Jacopo, pensaci e vedi di non pentirtene»

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