Capitolo 14

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Perdonatemi l'intrusione ma vi rubo solo un paio di secondi.

Volevo solo ringraziarvi tutti perché in questa storia non lo avevo ancora mai fatto.

Questa, in realtà, non è una storia vera e propria. E' più che altro un passatempo, un racconto che si sta praticamente scrivendo da solo, una pausa da quello che mi sono portata dietro per tre anni. E nonostante questo, nonostante i capitoli cortissimi e, pertanto, spesso privi di spessore, voi continuate a seguirla.

Devo un grazie a tutti, a chi c'è sempre stato, a chi ci sarà da ora in avanti, a chi mi supporta e a chi, disgraziatamente, mi sopporta!

Un abbraccio grande e buon Lunedì!




Quando quel Lunedì mattina Jacopo decise di alzarsi dal letto lo fece di malavoglia perché, già dal calduccio del suo giaciglio, poteva sentire che fuori il vento sferzava ogni cosa si trovasse a sbarrare il suo passaggio, con violenza inaudita.

Si alzò con noncuranza e con una voglia pari allo zero.

Scese in sala per fare colazione strusciando i piedi sul pavimento, riscaldò due dita di latte per poi macchiarle con una tazza di caffè piena fino all'orlo.

Aveva dei gusti strambi a colazione, sua madre glielo rinfacciava sempre.

Lui invece sosteneva fosse colpa dei suoi neuroni che, al risveglio, non erano mai abbastanza pronti per fare la scelta giusta. Lui era solo una povera vittima innocente del suo cervello in rodaggio.

Dopo aver compiuto i suoi riti quotidiani seguenti il risveglio si preparò per uscire chiudendosi nel suo fidato giaccone imbottito.

Il cielo non prometteva nulla di buono e, gli echi dei tuoni che si udivano in lontananza, non facevano altro che contribuire a rendere tetra quell'atmosfera che già rassicurante non era.

Jacopo si incamminò cercando di perdere meno tempo possibile ma fu più o meno a metà del cammino che qualcosa cambiò.

D'un tratto, al vento gelido che gli colpiva il volto, si aggiunse una pioggerellina fitta che, a contatto col suolo sembrava gelare all'istante fino a diventare una sorta di nevischio acquoso.

Tutti presero a correre, ad aumentare la velocità del proprio cammino e anche Jacopo ci provò ma il freddo che sentiva sembrava avergli gelato gli arti oltre che le membra.

Corricchiò per un po', per un paio di metri, non di più, poi dovette fermarsi a riprendere fiato.

Non era abituato all'attività fisica ed ogni più piccolo sforzo glielo ricordava ampiamente. Se si trattava di camminare non aveva alcun problema, lo faceva anche per ore, ma gli bastavano pochi istanti di corsa o una manciata di gradini per renderlo senza fiato e dolorante al fianco destro. Non che avesse qualcosa contro lo sport, era semplicemente lo sport ad avercela con lui.

Nonostante il fastidio che sentiva premere all'altezza della milza si costrinse ad accelerare il passo per non finire inzuppato quando il cielo si lasciò andare ad un temporale a regola d'arte.

I tuoni, prima lontani, rimbombavano sulla sua testa e lo scrosciare della pioggia che ormai lo circondava quasi gli metteva paura.

Quando fu in vista della sala da tè sentì nascere dentro una felicità sconfinata, proprio come quella degli immigrati di inizio Novecento che, alla vista della Statua della Libertà, capivano di aver trovato l'America.

Entrò nel locale e, proprio come farebbe un cucciolo a quattro zampe, si scosse per scrollarsi l'acqua di dosso.

Quando alzò lo sguardo verso il bancone scorse Simone che lo stava guardando con un sorrisetto divertito.

Jacopo si avvicinò senza interrompere il contatto visivo con lui. Fissò lo sguardo nel suo e un po' si perse. Era così verde, così brillante, così semplicemente bello.

«Mi sa che ti ho sopravvalutato» lo distolse l'altro dalla sua contemplazione.

Jacopo non afferrò il senso di quell'affermazione e un po', a dire il vero, si spaventò. Guardava Simone confuso sbattendo a più riprese le palpebre.

«Sei tutto bagnato» ghignò «deduco che non sia vero che sei in grado di assorbire proprio tutto»

Le sue sopracciglia si alzarono all'unisono e tutto fu chiaro.

Ancora una volta Jacopo capì che Simone stesse scherzando con lui, che stesse alludendo al suo soprannome e, stranamente, a discapito di quello che accadeva sempre, non provò imbarazzo.

Si stava abituando ai suoi modi di fare, ai suoi scherzi, alle sue battutine assurde.

Quello a cui mai si sarebbe abituato era il suo sorriso, la sua bellezza, il suo modo di guardarlo con una bontà d'animo che traspariva da ogni suo gesto.

Jacopo fu colto da un improvviso brivido di freddo che gli ricordò di dover togliere il giaccone e il cappello ormai completamente bagnati.

Nel fare quell'ultimo gesto si accorse della risata divertita di Simone che ancora lo stava fissando.

«Che c'è?» chiese Jacopo tentando di reprimere un sorriso.

«Credo sia meglio tu ti dia un'aggiustatina. Nel bagno, sotto il lavabo, trovi un phon. Vai, che ti copro io. Ah, mi raccomando i capelli» disse Simone con un occhiolino.

Jacopo si voltò sapendo di trovare alle sue spalle una serie di specchi.

L'immagine che gli si presentò lo fece arrossire a dismisura.

Un cespuglio.

Quei bastardi dei suoi capelli si erano davvero trasformati in un ridicolo cespuglio!

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