Prologo - Guarirò

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LEILA

Mi svegliai su un letto, non ero a casa, la stanza era fredda e bianca, tutto intorno a me non era affatto familiare.

Girai il capo lentamente e nonostante la vista offuscata riuscivo a distinguere una flebo ed una poltrona, proprio accanto a me.

Ovviamente la poltrona era vuota.

Cercai di recuperare la poca forza che ritrovai in corpo e appoggiando i palmi sul lettino cercai di sedermi, provocandomi un dolore allucinante alle braccia.

Le osservai ed erano bendate, leggermente sporche di sangue.

Ed immediatamente, come un treno in corsa, tutti i ricordi mi investirono, procurandomi un dolore che non riuscirei nemmeno a descrivere.

Le lacrime scendevano ininterrottamente sulle mie guance fredde, le mie corde vocali bruciavano e la mia voce usciva solo in deboli sussurri.

«signorina, deve riposarsi» delle mani tentavano di sdraiarmi, mi spingevano verso il basso, ma io non volevo tornare a dormire, non volevo vivere, volevo scomparire, cosicché tutto questo dolore potesse finire.

«dottore non vuole sdraiarsi» misi le mani chiuse in due pugni sulle tempie, la mia fronte scottava veramente tanto, la testa pulsava e non faceva che ricordarmi le notti precedenti.

La telefonata, il mondo che mi crollava addosso, il bagno, il sangue, l'ambulanza.

«lasci fare a me, la prego» una voce profonda e rassicurante si insinuò nella mia testa, era dolce e mi faceva sentire leggermente sollevata sapere che almeno qualcuno si interessava a me.

«Leila» due mani minute, ruvide ma sulla mia pelle seta, accarezzavano la parte del braccio non bendata, percepivo il caldo del suo corpo a contatto col mio freddo.

«apri gli occhi, guardami» per uno strano motivo aprii gli occhi e inchiodai le pupille alle sue.

«respira» obbedii e dopo parecchi minuti mi calmai, ma il dolore rimaneva sempre lì, sentivo un peso nel petto, mi straziava e sapevo che mi avrebbe schiacciato se non avessi fatto qualcosa.

«che ci faccio qui?» domandai sussurrando, perché ormai le mie corde vocale erano talmente irritate ed esauste che non riuscivo a parlare correttamente.

«Leila non ricordi?» io scossi il capo.
«nulla?» domandò di nuovo ed io scossi nuovamente il capo, qualcosa ricordavo, ma non avevo la minima voglia di parlare e sentire la gola bruciare e chiedere pietà.

Osservai il ragazzo al mio fianco e mi meravigliai perché non pensavo di essere così importante da farmi compagnia in ospedale, dopo aver tentato di togliermi la vita.

«sei qui perché hai tentato il suicidio, tagliandoti» osservava deglutendo le mie braccia fasciate, ma a me non toccava per niente, lo avevo già fatto in passato e sopportavo il dolore causato dagli squarci nella pelle.

«perché tuo padre è stato ucciso» sentivo il mento che tremava, non percepivo nessuna parte del mio corpo, tutto era immobile intorno a me, perfino i dottori non proferivano parola.

Passai lo sguardo incredulo su tutte le persone presenti nella stanza, gli occhi si riempirono nuovamente di lacrime ed era come se tutto intorno a me si fosse oscurato.

Non c'era nessuno, non sentivo nessuno, non pensavo nulla, vuoto assoluto.

Cercai di reprimere le lacrime perché non dovevo provare nostalgia e dolore per mio padre, lui ne aveva procurato fin troppo a me e non meritava il mio dolore.

Ma era mio padre ed era l'unico che rimaneva della famiglia, non avendo sorelle e fratelli ero praticamente sola, dopo che mia madre se ne andò quando ero ancora piccolina tutto cadde.

Era tutto nelle mani di mio padre, la mia vita, la mia carriera, il mio futuro.

E lui decise di mandare tutto in frantumi, facendosi prendere dalle emozioni si sfogava su di me, quasi ogni sera.

Lo sopportavo, ormai non era più un dolore fisico, ad ogni colpo che sferrava il dolore nel petto s'ingrandiva e sostituiva quello fisico, oramai inesistente.

E la colpa ricadeva tutta su mia madre, per averci lasciato soli, per aver spezzato il cuore di mio padre, per aver spezzato il mio.

«è stato... ucciso?» ripetei, Tomas continuava ad annuire mentre si stringeva nelle braccia e continuava ad osservare la mia pelle coperta e lacerata da un semplice oggetto di metallo.

Mi voltai, ripresi possesso di me stessa, ma mi era difficile dato che l'unica figura paterna che avevo era appena stata uccisa.

E non sapevo nemmeno il perché, era successo tutto così in fretta, avevo il cervello offuscato e non riuscivo a ragionare lucidamente.

Decisi di cercare di ignorare tutto il dolore che tenevo dentro, era la via migliore da prendere.

«ed ora?» domandai mentre portavo le mani tremanti sulle bende, tentai di scostarle per osservare cosa avevo combinato la sera prima ma il dottore non me lo permise.

«andrai in una clinica, tipo una casa dove ci sono altre persone che soffrono, proprio come te» tentava di spiegare Tomas, mentre io cercavo lo sguardo dei dottori.

«dove ci sono persone con un disturbo, dovrai maturare e cercare di guarire» concluse il dottore che mi osservava ormai da tempo, sono un campione da laboratorio? pensai.

«come riesco a guarire dal suicidio?» domandai seria mentre mantenevo lo sguardo dell'uomo, Tomas aveva un'espressione stupita.

Perché continuare a soffrire, perché farsi del male se la persona che è scomparsa non mi procurava nemmeno un minimo di felicità?

Perché soffrire per qualcuno che non merita nemmeno di essere ricordato?

«non è solo suicidio, è depressione Leila» precisò la donna con tono dolce mentre mi accarezzava la spalla, a differenza del dottore che era piuttosto freddo nei miei confronti.

«starai meglio, vedrai» mi rassicurò Tomas, lo osservai meglio soffermandomi sugli occhi, lo conoscevo da poco, era mio compagno di banco, la prima persona con cui parlai il primo giorno di medie.

Mentre osservavo il pavimento e Tomas si sedeva al mio fianco sentivo le voci dei medici in lontananza che parlavano di me, come se io non esistessi.

«guarirà, ma sarà un processo molto lungo» dicevano «ad età maggiore la rilasceranno» conclusero il loro noioso discorso, la mia testa era altrove.

Solo quattro anni.

Era focalizzata su un periodo della mia vita, quando mia madre se n'era appena andata e mio padre non era ancora fuori di sè.

Cercava in tutti i modi di rendermi una bimba felice, quando andavamo in giro o ad esempio al parco c'erano bambini che ridevano e scherzavano con i propri genitori, mentre io avevo solo un padre che cercava di portare avanti a fatica la mia vita.

«mi dispiace veramente tanto, Leila» la mano del mio amico afferrò la mia che notai solo ora, era bianca, quasi viola e mi fece parecchia impressione.

«ho sentito che mi rilasceranno solo ai 18 anni» lo informai e lui annuì debolmente mentre strinse la mia mano fredda, il suo calore mi scaldò talmente tanto che sulle mie labbra si dipinse un debole sorriso.

«non mi importa, ci sarò comunque ad aspettarti»  sorrise mentre distolse lo sguardo dalla porta della mia stanza socchiusa.

«come ti senti?» azzardò a domandare mentre mi persi ad osservare il muro dinanzi a noi, sentivo un dolore straziante, ma come ho già detto, non merita la mia compassione.

«male» ammisi «anche se lui non merita il mio dolore, non merita di essere pensato» conclusi voltandomi verso di lui.

«sento un vuoto, e non mi spiego nemmeno il
perché» indicai il mio petto e il suo sguardo cadde sul mio camice bianco cadaverico.

«guarirò, Tomas» accennai un sorriso che a fatica riuscivo a fare, mentre sorridevo sentivo il mondo pesare sempre di più, e la voglia di mollare tutto era di nuovo nei miei pensieri.

«devo guarire»

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