Capitolo Otto

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Freddo.
Gelo inteso, secco che ricopriva le ossa e le membra.
Era tutto ciò che percepivo. Qualcosa di freddo e viscido strisciava dentro di me divorando tutto ciò che trovava avanti e facendo morire tutto ciò che sfiorava. Era una sensazione strana, bruttissima, sembrava che il male avesse preso tutto il mio corpo imprigionandolo nelle sue spire piene di spine velenose che si conficcavano nella carne facendola sanguinare.
Ero stesa su qualcosa di morbido e bagnato, al tatto sembrava soffice, vellutato. Sollevai la mano trovando all'interno una manciata di petali bianchi e allora capii.

Paura.
Il mostro che strisciava dentro di me era pura paura, nella sua forma più ancestrale, di quella che ti paralizza impedendoti di urlare o compiere il più piccolo movimento. Accanto a lei un'altra sua cara amica, sì perché andavano a braccetto loro due. Non esisteva l'una senza l'altra, così complementari e terrificanti. Mi fissava con le sue fauci spalancate, vuote e oscure e proprio per questo ancora più terrificante. Mi stava aspettando.

Tic-tac. Tic-tac sembrava dire.

Sto venendo a prenderti.

Tic-tac. Tic-tac.

Inizia a contare.

Tic-tac. Tic-tac.

Un due e tre sono da te.

Tic-tac. Tic-tac.

La Morte.

Aprii gli occhi di scatto tirando un profondo respiro con la bocca che mi bruciò i polmoni. Convulsamente mi alzai a sedere guardandomi intorno nella stanza in penombra sconvolta dai tremori che avevano imprigionato il mio corpo. Passai le mani sul viso e tra i capelli umidi di sudore, dandomi dei pizzicotti per accertarmi di essere davvero sveglia e non più preda dell'ennesimo incubo terrificante.

L'avvertivo ancora, la sensazione fredda e viscida muoversi tra le mie viscere. Se me lo avessero chiesto avrei risposto che la paura aveva un sapore amaro. Ti secca la bocca rendendola ruvida e quel saporaccio prende il sopravvento su tutto. In passato avevo provato a togliere quel sapore con qualsiasi cosa, cibo e bevande di ogni genere, una volta lavai i denti dieci volte ma nulla, quel sapore restava lì così come la sensazione che mi imprigionava lo stomaco.

Con il cuore che tamburellava nelle orecchie e in gola scesi dal letto, il pavimento freddo a contatto con i miei piedi nudi mi donò un attimo di tregua. Fuori era ancora buio, doveva essere notte inoltrata. Spostai i capelli dal viso precipitandomi in biblioteca per accendere il computer. Ormai era così che passavo tutte le mie notti, svegliata da incubi spaventosi e sempre più realistici.

Potevo sentire lucidamente tutte le sensazioni ed emozioni che provavo ed erano così intense da lasciarmi senza fiato ogni volta. Era terrificante e mi svuotava di tutte le mie energie, ogni singola volta, mi svegliavo, piangevo, urlavo tutto quello che avevo dentro e il mattino dopo tornavo a essere la solita Vega sorridente e spensierata davanti agli altri.

Era un loop infinito di menzogne e verità negate... era così che doveva andare anche se tutto quello mi stava lentamente consumando dentro.
Avviai le registrazioni delle telecamere e le guardai tutte, ancora e ancora, fino a farmi bruciare gli occhi. Con la mano che tremava mi feci coraggio e aprii il primo cassetto della scrivania chiuso con una chiave che tenevo nascosta. Guardai il suo interno come se fosse stato pieno di ragni velenosi, alla fine presi il mio vecchio cellulare e lo accesi. Avevo tolto la vecchia scheda lasciandola nello stesso cassetto però potevo comunque leggere i vecchi messaggi.

Le mani mi tremavano così tanto che quasi mi cadde, pigiai su quel numero e la sfilza di frasi mi si stampò nella mente come un marchio impresso con il fuoco. Ormai le conoscevo tutte a memoria ma ogni volta che avevo un incubo tornavo a leggerle lo stesso. Era dannatamente masochista, sì, forse era solo l'ennesima forma di autolesionismo mentale che mi imponevo in quei momenti in cui la paura prendeva il sopravvento sulla ragione.

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