Capitolo Ventisette

931 46 10
                                    


Sirio                                                                                         

Nietzsche diceva che esistono due tipi di persone: le prime sono quelle che nascono già sicure di sé, come se avessero ricevuto l'autostima in dono alla nascita, e questi altro non sono che gli stolti; le seconde, invece, sono quelle che tutti i giorni devono convincere lo "scettico che è presente dentro di loro" del proprio valore. E non importa quanto si impegnino e facciano, ogni giorno lo scettico è di nuovo lì.

Era esattamente contro quello cui avevo combattuto per tutta la mia vita e continuavo a farlo. Una battaglia che mi spingeva sempre a dare il meglio di me per dimostrare gli altri ma soprattutto a me stesso quanto valessi, quanto fossi dignitoso di tutto quello. Mi ero fatto il culo sui libri durante tutto il periodo della scuola per cercare di non essere additato come lo stupido, quello che pensa solo a ridere e a scherzare. Quello che non sta mai fermo o che mentre gli parli pensa ad altro o non ascolta.

Quando mi fu diagnosticato il disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività tante cose divennero finalmente chiare. Non ero distratto o annoiato dai compiti perché provavo poco interesse per quella cosa ma era il mio disturbo a farmela percepire come tale. La mia iperattività che mi costringeva a non stare fermo per più di cinque minuti nella stessa posizione era causata dal disturbo.
Non ero stupido e lo avevo dimostrato lavorando sodo all'università prima e alla scuola di specializzazione dopo.

Nonostante tutto è stato difficile accettare che ci fosse effettivamente qualcosa che non andasse nel funzionamento del mio cervello. Non era grave, certo, ma per un bambino di sette anni poteva esserlo eccome quando si è circondati di bambini cattivi e offensivi.

Ci aveva pensato sempre Vega a quello, mi difendeva dai bulletti come solo una sorella maggiore saprebbe fare. Era stata lei ad aiutarmi ad accettare la cosa con tanta, troppa pazienza. Tutti i pomeriggi dopo scuola mi si sedeva accanto sulla scrivania della camera e mi aiutava con i compiti. Si prendeva cura di me.

Ma lei? Chi si prendeva cura di lei? Prendeva sempre in giro Cassiopea definendola una mamma chioccia per il modo in cui si comportava con noi ma lei... lei era la sorella che accorreva quando la notte eri ubriaco e stavi vomitando anche l'anima dopo una sbronza che quasi ti mandava in coma etilico solo perché avevi visto la tua ragazza baciarsi il tuo migliore amico. Ed era quella che andava a dirgliene quattro a entrambi senza risparmiarsi nulla.

Era la stessa che nascondeva l'accaduto ai genitori e ti stava vicina tutta la notte per accertarsi che non ti sentissi male. Era quella persona che quando la giornata era di merda ti proponeva film e gelato a quantità, lasciandoti la scelta del film. Era quella che se il tuo mondo andava a puttane ti avrebbe tirato nel suo fatto di abbracci e amore e caos.
Era la stessa persona che per non farci stare male ci aveva taciuto una verità sconcertante.

Non sapevo ancora se fossi riuscito a perdonarla per quello o forse non riuscivo a perdonare me stesso per tutte le volte in cui avevo prenotato quel volo ma alla fine non lo avevo mai preso.
Le cose forse sarebbero state diverse.

Il mio pugno si scontrò contro lo specchio sopra il lavandino rovinando la mia immagine riflessa in mille pezzi, un fracasso di vetri rotti che si infrangevano nel lavello. Il bruciore si irradiò lungo il braccio fino a perforarmi il cervello.

Oh sì, dolore per scacciare altro dolore.

Trauma fisico contro trauma emotivo. Dannatamente autolesionista, ma era quello di cui avevo bisogno in quel momento. Fissai vacuo le linee di sangue colarmi dalle nocche spaccate e dai tagli inferti dal vetro e sporcare il candore della ceramica del lavandino.

Ero stato così stupido. Così cieco. Tutti lo eravamo stati. Tutti noi dovevamo vergognarci per il nostro miserabile comportamento. Certo era bello puntare il dito, dire che era una stronza perché era sparita.
Ma noi altri? Avevamo avuto così tante possibilità per raggiungerla e capire ma avevamo preferito sprecarle, crogiolandoci nel nostro risentimento verso di lei.
Lei che nel frattempo stava lottando con qualcosa di ben più grosso che un dissapore tra fratelli.

Le dovevamo delle scuse.
Noi tutti.
A partire da me avanti.

Non ci riuscivo, non ce la facevo.
Ogni volta che chiudevo gli occhi flash di quelle immagini, di quel racconto da brividi mi inchiodavano il cervello. La vedevo distesa, esangue, ricoperta di rosso mentre poco a poco la vita la abbandonava.
Avevo finito le lacrime, versate tutte tra le sue braccia che ancora una volta erano accorse per sostenere me, per consolare me.

E lei? Chi ci pensava a lei? Chi la consolava quando piangeva? O quando gli incubi la tormentavano? Perché ero sicuro di quello, non si può sopravvivere ad un evento del genere e sperare di tornare a dormire sonni tranquilli.
Matthew?
Poteva bastare la presenza di una singola persona per poter affrontare tutto quello?

Mi sentivo così impotente, ancora una volta non in grado di proteggere la mia famiglia, ancora una volta una nullità. Un perdente.

La cascata di sangue aumentò, ora tante striscioline perpendicolari decoravano il lavello in una sorta di arte macabra. Strinsi i denti fino a sentirli scricchiolare e colpii ancora, quello che adesso era lo scheletro dello specchio. Pezzi affilati come coltelli tranciarono la carne costringendomi a urlare. Ma continuai, un altro e un altro ancora fino a che il dolore divenne insostenibile e il sangue usciva ormai a fiotti.

Era questo che aveva provato quando la lama del coltello l'aveva colpita?

Quel dolore paralizzante?
Aveva urlato o pianto?
Oppure era rimasta in silenzio per non dargliela vinta?

Sì ne sarebbe stata capace, stupida e testarda com'era.

Aveva pregato, lei che non aveva mai creduto in Dio?
Oppure aveva pregato lui di fermarsi?
Aveva chiamato la mamma pregandola di andare ad aiutarla mentre sentiva i sensi abbandonarla?
O si era lasciata andare, addormentandosi e sperando che finisse tutto in fretta?

O forse aveva chiamato papà, pregandolo di raccontarle una storia che l'aiutasse ad addormentarsi più serenamente e dimenticare quell'atrocità di cui era vittima?
Non lo sapevo. Non potevo immaginarlo, per quanto ci provassi non ci riuscivo.

Caddi seduto sulle piastrelle fredde del bagno, la mano poggiata alla vasca penzolante e grondante di sangue. Non mi importava.

Cos'era qualche graffio in confronto a tre coltellate e un tentato soffocamento?
Cos'era un po' di sangue in confronto ai litri che doveva aver perso?
Cos'era un po' di dolore dinanzi all'odio contro cui aveva combattuto?

Niente. Non era niente.
Io non ero niente.
Non dopo quello che avevo ascoltato.

Dicono che la stella Sirio sia la più luminosa del cielo notturno, ma si sbagliavano.
La stella più luminosa dell'intero fottuto universo era mia sorella Vega che continuava a brillare di quella luce accecante e propria nonostante tutto. Nonostante la morte avesse provato a portarsela via. Nonostante quel bastardo avesse provato a oscurarla per sempre.

Lei continuava a brillare.

Aveva vinto lei.
Ma quanto le era costata quella partita?





Ehm... ciao! Record, terzo aggiornamento in un giorno. Non abituatevi! È stato un caso a sé questo.
Comunque, veniamo a noi.
Sirio, piccolo dolce Sirio.
Ho pianto le peggio lacrime per lui giuro.
Mamma mia sono un po' masochista lo ammetto.
Ad ogni modo, che ne pensate di lui? Della sua personalità?
Fatemelo sapere 🥰
Grazie e tanti bacini a domani. ❤️‍🩹🌌

Universe's VoiceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora