Capitolo Settantatré

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Il ticchettio dell'orologio sopra la mia testa scandiva il tempo e il susseguirsi dei miei pensieri.

Tic-tac.

«Deve aver perso il controllo dell'auto.»

Tic-tac.

«Alcuni testimoni parlano di un suv che gli ha tagliato la strada.»

Tic-tac.

«Stiamo facendo di tutto per cercarlo.»

Tic-tac.

«La situazione è molto grave. Ha riportato una grossa emorragia cerebrale e diverse fratture, l'impatto è stato forte.»

Tic-tac.

«L'intervento sarà lungo e delicato.»

Tic-tac.

«Il corpo è stato sbalzato fuori dall'abitacolo.»

Tic-tac.

«È un miracolo che sia arrivato vivo in ospedale.»

Matthew.
Il mio Matthew.

Ero seduta su quel pavimento davanti la porta che divideva la sala d'attesa dalle sale operatorie ormai da otto ore.
Era mezzanotte. I chirurghi erano chiusi lì dentro a lavorare sul corpo del mio migliore amico da otto ore. Ogni tanto venivano a darci informazioni.
Ma io non mi ero più mossa da lì.

Lo sguardo fisso nel vuoto e le lacrime che oramai scendevano da sole senza possibilità che io riuscissi a controllare.
Non controllavo più nulla a dire il vero. Neanche il mio corpo o la mia mente.
Soprattutto quella.

Sulle sedie tutte intorno erano agglomerati i miei fratelli.
Claire che continuava a singhiozzare disperata tra le braccia di Sirio devastato come gli altri.
Andromeda non aveva aperto più bocca, si era limitata a sedersi in disparte e piangere in silenzio.
Joy era crollata addormentata tra le braccia di Phoenix e un'infermiera si era offerta di portarla al nido al piano di sopra per allontanarla da quell'incubo.

L'incubo del suo unico zio che stava combattendo contro la morte.

Il mio Matthew.

Un mantra che mi ripetevo ormai da otto ore.

Una mano grande e un polso dove scintillava un bracciale di perline argentate mi coprì la visuale del muro blu sbiadito che fissavo da otto ore mentre mi porgeva un bicchiere di carta.
L'odore del caffè mi colpì lo stomaco provocandomi un conato.

«È caldo.»

Ignorai Phoenix continuando a guardare ostinatamente quel punto preciso dove una crepa nella vernice sbiadita sembrava ricambiare il mio sguardo.

«Ehi...»

Il suo sussurro dolce mi fece quasi male, sembrava stesse parlando con una bambina ferita.
Si inginocchiò accanto a me sfiorandomi il braccio.

«Non hai bevuto né mangiato nulla da ore, ti sentirai male.»

Porse ancora il bicchiere ma il mio mutismo e la mia ostinazione nel fissare il muro lo fecero sospirare rassegnato.

Ero lì con il corpo ma la mia mente era altrove, sfogliava quel grande, enorme libro dei ricordi racchiusi dentro di me.
Ricordi miei e di Matthew.
Delle nostre avventure.
E di più delle nostre disavventure.

Un'altra lacrima rotolò giù andando ad infrangersi sulle labbra screpolate.
Un'altra figura mi si avvicinò.
Ormai andava avanti così da ore, a turni cercavano di tirarmi fuori dal mio stato catatonico.
Ma loro non sapevano.
Non capivano.
Non potevano capire quello che Matthew era per me e quello che io ero per lui.

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