Capitolo Ottantatré

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       Matthew

Sentivo il corpo dolere e bruciare come se fosse avvolto dalle fiamme.
Pelle che tirava, muscoli che non obbedivano ai miei ordini e la testa, quella era la parte peggiore.
Mi sembrava di aver inserito la testa in una centrifuga che mi aveva ridotto il cervello in poltiglia.

Faticavo a tenere gli occhi aperti e ancor di più a prestare attenzione a ciò che le persone mi dicevano.
Ero in uno stato di profonda confusione.
Parlavano ma io a stento comprendevo le loro parole.

Riuscivo a capirle per intuito, sforzandomi enormemente per leggere il labiale ma ciò mi costava uno sforzo immane e allora era meglio annuire in silenzio cercando di sorridere quanto meglio potevo a causa dei lividi che mi ricoprivano da capo a piede.

I danni erano tanti e gravi.
Avevo la spalla sinistra con annesso braccio ingessato, dei ferri che fuoriuscivano dal ginocchio destro e se provavo a muovere la gamba quella non rispondeva.

Residui di una commozione cerebrale che mi faceva scoppiare la testa senza un attimo di sosta.
Metà corpo livido, graffi e tagli ovunque, un occhio mezzo ammaccato che faticavo a tenere aperto del tutto ma almeno ci vedevo.

Ricordavo poco dell'incidente solo che un attimo stavo guidando tranquillo verso l'aeroporto, il secondo dopo un forte impatto e il mio corpo che volava oltre il parabrezza.

Ed ora avevo la certezza che Corey Howard avesse cercato di farmi ammazzare, per colpire Vega.
Per farle ancora del male.
Ancora di più.
Stavolta era peggio, colpiva gli altri per farla crollare, per portarla da lui.
Per farsi pregare.

Ebbi l'impulso di stringere i pugni ma l'impossibilità a causa del gesso e delle flebo attaccate alla mano buona me lo impedirono facendomi salire un'ondata di frustrazione e rabbia.

Essere vicino alla morte mi aveva fatto aprire gli occhi, mi aveva fatto capire quanto delicato e sottile fosse quel filo che ci tiene in vita. Basta un non nulla, un misero attimo, un piccolo battito di ciglia.
Un secondo prima stai svolgendo la tua vita quotidiana e quello dopo ti ritrovi esangue, incosciente... morto.

Non se ne parla molto del trauma che ti porti dietro dopo una quasi morte.
Mi ero svegliato da quanto? Tre ore?
Eppure già sentivo quel peso premere sul mio cervello, comprimerlo forte fino a strizzare anche l'ultima goccia di linfa.

Non è vero che non senti nulla quando stai per morire, al contrario senti tutto.

Mentre ero riverso sull'asfalto bollente, mezzo incosciente, sentivo le urla spaventate delle persone intorno a me.
Lo stridere delle gomme sull'asfalto.
Sentivo il caldo del sole che mi bruciava la fronte e la guancia.
Avvertivo il sangue scorrere da qualsiasi parte del mio corpo, ricoprirmi la vista e inondarmi la bocca rendendomi difficile respirare.
Riuscivo addirittura a sentire le sirene che si avvicinavano.

Ma più di tutti sentivo il freddo.
Un freddo viscido che risaliva dalle gambe fino a covarsi nello stomaco e poi salire più su, nel cervello.
Insieme al freddo venne la paura.
Paura di non rivedere la mia famiglia, mia nipote.
I miei nuovi amici.
Vega.

Sentivo di star lentamente abbandonando tutto senza neanche aver avuto il tempo di salutare.
Senza aver ripetuto quanto volessi bene a tutte quelle persone.
Senza aver avuto il tempo e il coraggio di dire a Vega che sì, un tempo l'avevo amata e continuavo a farlo ma mai in senso romantico, adesso volevo solo che lei fosse felice con Phoenix e se c'era spazio magari anche con me.

E mentre ero lì, a morire, a piangere in silenzio dove le lacrime si miscelavano al sangue per via della paura, volevo solo tornare a casa.

Casa era mia sorella Claire che mi urlava contro perché mi comportavo da stupido ma che mi dava un abbraccio quando ero giù.
Casa era la piccola Joy con i suoi baci appiccicosi di cioccolato e i suoi vestitini strani.
Casa erano diventati tutti i fratelli Wayne che mi avevano accettato tra loro.
Casa era anche quel muso lungo di Phoenix, nonostante tutto.

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