Capitolo Sessanta

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«Non vorrei disturbare la tua contemplazione del nulla, ma cosa ci facciamo a Boston?»

La città era rischiarata dalle prime luci dell'alba che iniziava a fare capolino.
Il mio sonno ormai svanito del tutto a causa di quella sorpresa improvvisa.

Eravamo in auto da mezz'ora durante la quale Cassiopea mi aveva trattenuta in una lunga telefonata, che poi cosa ci faceva sveglia a quell'ora era un mistero dato che a San Diego era circa l'una di notte, e lui non aveva aperto bocca neanche mezza volta, chiuso ancora in quel silenzio punitivo che credevo avesse superato dopo il nostro discorso sull'aereo.
Credevo male a quanto sembrava.

Non rispose, ovviamente. Continuava a guidare in silenzio lungo le strade della sua vecchia città che iniziava a svegliarsi.
Una città sconosciuta per me ma piena di ricordi dolorosi per lui.
Fui colpita da una profonda malinconia rendendomi conto di quanto dovesse costargli essere lì.

Sospirando in silenzio allungai la mano posandola sulla sua, gli angoli delle sue labbra si alzarono impercettibilmente in un sorriso quando fece intrecciare le nostre dita accarezzandomi il dorso della mano con il pollice.

«Vuoi davvero restare in silenzio per tutto il tempo in cui saremo qui?»

Un piccolo cenno di assenso.
E poi ero io la bambina capricciosa.
Gesù dammi la forza.

«Giusto per la cronaca, quanto tempo ci tratterremo?»

Ancora silenzio.
Dovevo inventarmi qualcosa.

«È ancora da decidersi.»

Oh, mi aveva risposto.

«E questo cosa vorrebbe dire?»

Dovevo farlo parlare.

«Quello che ho detto.»
«Perché sei così criptico?»
«Brutta sensazione quella che si prova quando ti nascondono cose importanti, vero?»

Ed eccolo di nuovo. Odiavo quando si comportava in quel modo, mi faceva sentire in colpa più di quanto già non mi sentissi di mio.
Sbuffando risentita sciolsi la mano dalla sua stretta ma prima che potessi fare altro me la riacciuffò al volo rimproverandomi con un'occhiataccia.
E il mio cuore fece una capriola.
Forse non era poi così arrabbiato.

«Dobbiamo parlare Phoenix, non possiamo andare avanti così con te che mi ignori ed io che impazzisco.»
«Te l'ho già detto Vega, non voglio parlare con te. Non per il momento almeno. Non mi sono calmato, sono ancora terribilmente incazzato e ferito e sapere che c'è una cazzo di spia nelle mie guardie del corpo peggiora solo il mio stato mentale.»

Lo guardai scioccata.

«Quindi hai davvero intenzione di fare il muto per tutto il tempo - non definito - che staremo in questa città dove oltretutto mi hai portato senza il mio consenso?»

L'occhiata di superiorità che mi lanciò mi fece prudere le mani dalla voglia di prenderlo a schiaffi. Sembrava tornato lo stronzo che avevo conosciuto il primo giorno a San Diego.
Quello che mi aveva fatto desiderare di tenerlo lontano.
Adesso non riuscivo a pensare di non averlo accanto neanche per ventiquattro ore figurarsi allontanarlo del tutto.

Sarei tornata da lui, una volta risolto il casino con Corey, ma a lui sembrava non importare e non provava neanche a capire le mie ragioni. In più si aspettava ancora una spiegazione per la mia gita improvvisa.
Che diavolo potevo inventare? Non potevo di certo dirgli:

«Mi è solo venuta voglia di fare visita all'assassino di tua sorella in carcere e farlo incazzare, niente di che tranquillo! E oh quasi dimenticavo sono andata a parlare con il giudice pregandolo di non accettare la richiesta di quel decerebrato!»
No era fuori discussione, non avrebbe mai saputo di quella storia.

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