Capitolo Quarantuno

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Non sapevo esattamente cosa fosse appena successo nel mio cervello, si era completamente scollegato. Qualcuno doveva aver spezzato tutti i fili mandandolo in cortocircuito una volta per tutte.

Forse tutto l'alcol e l'erba che mi aveva fatto bere e fumare in passato Matt avevano sortito qualche effetto che si stava presentando con anni di differenza.
Avevo agito d'istinto, colpita nel profondo dalle sue parole e da come parlava di me.

Come si poteva resistere davanti a parole così sincere?
Davanti a quegli occhi così brillanti mentre parlava di me come fossi davvero la persona più bella del mondo... e ci avevo creduto sul serio a quelle parole.

Premetti le labbra sulle sue morbide e piene proprio come le ricordavo in quel misero assaggio che mi aveva dato tempo fa, sempre nello stesso luogo ma in circostanze decisamente diverse.
Avvertii il suo corpo diventare di granito sotto il tocco delle mie mani, preso alla sprovvista dal mio gesto così sfacciato.

Non se lo aspettava.
Neanche io a dire il vero.
Però avevo seguito, forse per la prima volta da tanto, troppo tempo, il mio cuore malconcio piuttosto che la ragione che tentava ancora di farmi sopravvivere anziché vivere.

Forse avevo sbagliato.
Forse me ne sarei pentita.
Forse dopo sarei andata a nascondermi sotto dieci metri di terra.
Ma in quell'istante lo avevo sentito, quel desiderio bruciante, quella voglia di fargli capire che per me era la stessa cosa.

Era più dell'universo.
Più delle stelle e delle galassie.
Era qualcosa di ancestrale che non riuscivo a capacitarmi di come avessi potuto incontrarlo.
Qualcosa di così puro che non riuscivo a capire come avessi potuto pensare di aver mai provato qualcosa di anche solo paragonabile a quello.
Non lo era. Niente lo era.

Phoenix mi stava insegnando tanto, prima di tutto a tornare a vivere ricordandomi che io non ero il mio trauma.
Ero una persona con un trauma e potevo affrontarlo e superarlo.

Schiusi le labbra muovendole piano contro le sue, prendendomi quel bacio che avevo desiderato dalla prima volta in cui aveva pronunciato il mio nome con quel suo modo particolare, con il suo accento e quella cadenza che lo portava a calcare la e.

Era ancora fermo come una statua, forse lo avevo scioccato definitivamente o forse non sapeva come comportarsi.
Cosa fare.
Se poteva toccarmi.

Inspirando il suo profumo lasciai scivolare le mani lungo le sue spalle larghe, giù verso le braccia, i muscoli sempre più tesi, la pelle nuda che si sollevò al passaggio dei miei polpastrelli delicati.
Mi venne da sorridere contro le sue labbra notando l'effetto che gli facevo.

Raggiunsi le sue mani e sollevandole me le portai contro i fianchi, sobbalzai quando mi sfiorarono, dandogli così il via libera.
Facendogli capire che andava bene.
Poteva farlo, non mi sarei scostata.

E finalmente sembrò ridestarsi.
Accidenti dovevo averlo davvero scioccato.
Le dita affondarono nella carne dei miei fianchi quando con un gesto secco, imperioso mi fece scivolare lungo la superficie liscia del bancone attirandomi verso di lui costringendomi ad allargare le gambe per potersi infilare nel mezzo.

La sua bocca prese a muoversi in sincrono sulla mia, famelica e bramosa.
La lingua scivolò a incontrare la mia in una sorta di danza lenta fatta di carezze umide e languide.
Le vespe esplosero nella mia pancia muovendosi imbizzarrite mentre il calore mi invadeva tutta.

Le mie mani finirono nei suoi capelli tirando quelle ciocche di rame che mi facevano impazzire. Avvolsi le gambe attorno alla sua vita tirandomelo più vicino, stando sul ripiano avevo un vantaggio in altezza rispetto a lui costringendolo a reclinare il capo all'indietro.

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