Capitolo Ottantasei

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- San Diego, California.
- Una settimana dopo il salvataggio.

Non ero mai stata molto credente, a dire il vero mi ero sempre definita atea al cento per cento.
Il mio rapporto con un fantomatico Dio era sempre stato controverso.

Mi sembrava assurdo credere che esistesse una forza sovrumana, un essere senza forma né materia che decidesse il destino di tutti noi.
Che manovrasse le nostre vite.

Un burattinaio che si divertiva a muovere i fili delle nostre esistenze, forse per egoistico piacere o forse per punirci del nostro essere inferiori.
Creati a sua immagine e somiglianza ma non abbastanza da essere ritenuti suoi pari.
Non avevo una risposta, non l'avevo neanche mai cercata.

Non potevo crederci.
Non potevo credere che potesse esistere un essere così cattivo, che permettesse ai suoi figli di soffrire così tanto.
Di vedere persone morire, piangere, disperarsi.

Soffrire e desiderare che la morte giungesse presto a prenderli per donargli un po' di pace.

Nessun padre resta indifferente dinanzi al declino dei propri figli.

Non potevo crederci, non volevo crederci, eppure in quel momento avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa che fosse più forte di me.
Più potente.

Qualcosa a cui appigliarmi, chiedere aiuto e ascolto.
Pregare.

Qualcuno a cui chiedere una speranza.
Quella che avevo perso quella notte.

Ed eccomi lì, in quella piccola cappella.
Eccomi lì, inginocchiata davanti ad un dipinto circondato di candele che flebili illuminavano l'ambiente piccolo e intimo.

Eccomi lì a parlare con questo fantomatico Dio, a fare i conti con lui.
Tirare le somme di ciò che era stato e ciò che sarà.
A spogliarmi delle mie incertezze e delle mie paure.

Era passata una settimana.
Una settimana da quando mi ero svegliata in quel letto d'ospedale urlando e strappandomi fili e bende.
Gridando di portarmi da lui.
Perché non poteva essere morto.

L'avrei sentito, avrei avvertito quel legame che ci univa spezzarsi e invece era ancora lì, nascosto al sicuro dentro me.
Debole, ma c'era.
Lo percepivo come percepivo l'ossigeno nei polmoni.

La mia scenata isterica mi era costata un altro giro di calmati che mi avevano messa k.o per il restante giorno.
Quando mi ero risvegliata, ancora, avevo cercato di mantenere la calma.

I dottori mi avevano parlato, con tono calmo e rassicurante, come se avanti avessero un animale pronto a sbranarli.
Addirittura la mia famiglia mi guardava impensierita.

Il trauma.
Dicevano che era quello.
Un altro che andava ad aggiungersi al precedente creato sempre dalla stessa persona.

Io volevo solo ridere e piangere e pregare affinché mi portassero da lui.

Avevo ricordi molto vividi per quanto riguarda il mio secondo risveglio.
Ricordavo le lacrime di mia madre e il sollievo di mio padre.
Gli abbracci di Sirio, i rimproveri di Andromeda, le carezze sulla testa di Alya.
Ricordavo la sgridata di Altair quando mi aveva urlato contro che ero stata una stupida incosciente che non aveva pensato per un secondo alla sua famiglia.

Come facevo a dirgli che avevo fatto tutto quello per salvare la mia famiglia?

Ma più di tutti ricordavo Cassiopea, o meglio, il fantasma che era Cassiopea.
Ci avevano messe nella stessa stanza per farci stare insieme, lei si era svegliata molto prima di me e a quanto pare era stata abbastanza tranquilla da non dover essere drogata.

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