Capitolo Settantotto

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Accarezzai quel viso ricoperto di bende, il tubo che usciva dalla sua bocca e lo aiutava a respirare era la cosa più brutta che avessi mai visto. Mi sentivo male al solo guardarlo.
Però i dottori avevano detto che stava reagendo bene.

Ovvio che sì, avrei voluto dirgli, era Matt lo stesso ragazzo che aveva sollevato il mio corpo inerme dal pavimento.
Era forte.
Lui.

Avrei voluto che mi infondesse un po' di forza anche in quel momento ma i suoi occhi erano chiusi.
Era perso in un sonno incosciente a causa dei farmaci però poteva sentirci lo stesso.
Per questo gli parlai di tutto quello che era successo nelle ultime ore.

Gli raccontai di Phoenix, con tutti i dettagli perché sapevo che avrebbe voluto conoscerli.
E poi gli raccontai di Ward e dell'interrogatorio.
Eravamo a meno uno, lo avevamo preso e ci avvicinavamo sempre di più a prendere anche quel bastardo di Corey.

Era venerdì.
Solo quattro giorni.
Altri quattro giorni per arrivare in quel locale e prenderlo con le mani nel sacco.

E magari spezzargli qualche osso per quello che ci aveva fatto.
A tutti noi.

Seduta accanto al letto, il viso poggiato sul braccio piegato sul materasso, una lacrima silenziosa a sfiorarmi l'angolo dell'occhio e un mesto sorriso sulle labbra brucianti a causa dei tagli fatti con i denti, seguivo con lo sguardo il movimento ritmico del suo cuore sul monitor.

Avrei voluto dirgli tante cose ma non riuscivo più a parlare.
Quel mostro freddo e viscido mi scivolava dietro la schiena infilando i suoi artigli seghettati alla base del collo risucchiando tutta la mia linfa vitale.

Il senso di colpa.

Non si troverebbe in quel dannato letto d'ospedale se io non l'avessi chiamato nel pieno della notte dopo il litigio con Phoenix.

Non sarebbe quasi morto per colpa di quello psicopatico che mi dava la caccia.
Aveva lasciato la sua casa, il suo lavoro, per correre da me.
Dall'altra parte del Paese.
Per starmi vicino...
E io...

Io lo avevo quasi fatto ammazzare...

Era tutta colpa mia.
Ancora una volta non avevo fatto altro che creare casini e scombussolare in peggio la vita di tutti.
Anche la sua.

Un trambusto fuori dalla stanza mi costrinse a sollevare la testa, pesante a causa della febbre che era salita, la sentivo darmi fuoco alle tempie.

Urla e pianti disperati mi raggiunsero da oltre quella porta, scattai in piedi già in preda al panico totale e dando un ultimo sguardo e una carezza a Matt mi affrettai ad uscire per vedere cosa stesse accadendo.

Nella sala d'attesa i coniugi James abbracciavano la loro primogenita.
Un paio di occhi verde-azzurri circondati da una cascata di ricci scuri mi piantò sul pavimento.
Sentii il magone stringere la gola e tirai su con il naso passando la manica della felpa sulla bocca sperando di scacciare quel saporaccio amaro.
La paura.
Vecchia stronza.

Kendall James abbandonò le braccia di sua figlia per venire, a passo incerto, verso di me.
Si fermò a pochi passi fissandomi vacua con gli occhi rossi e pieni di lacrime.
Il volto così simile a quello del mio amico stravolto dalla sofferenza.
Un singhiozzo le squarciò il petto.

«Il mio bambino... il mio bambino

Mi ritrovai a trattenere a stento le lacrime quando mi gettò le braccia al petto stringendomi e singhiozzando contro di me.

Il suo bambino...
Che avevo quasi fatto ammazzare...

Gli artigli del mostro si conficcarono più in profondità nella mia schiena facendomi sanguinare internamente, inacidendo i miei organi e i muscoli.

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