Capitolo Trentuno

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Phoenix

Da bambini ci insegnano a non fidarci degli sconosciuti. A non accettare caramelle da chi non conosciamo.
Ci insegnano che il mostro si nasconde dentro l'armadio o sotto al letto, che la notte ha dentro di sé demoni oscuri pronti a divorarci.
Ci insegnano a diffidare da quello che non conosciamo, a proteggerci dall'uomo nero che arriva la notte per rapirci.

Ci dicono che andando nella foresta da soli incontreremo il lupo cattivo.
Ma che succede se il mostro non è lo sconosciuto ma ha un viso familiare?
Cosa succede se il lupo dorme tutte le notti accanto a noi, ci accarezza, ci sussurra all'orecchio?
Cosa succede se tutte le nostre certezze, tutto quello che ci hanno insegnato si ribalta inesorabilmente?

Succede che scopriamo che non è mai stato come ci raccontavano da piccoli, nelle favole. Il lupo non ha bisogno che tu entri nella foresta per divorarti e lo sconosciuto non ti offre caramelle per rapirti.
Succede che gli umani si rivelano per gli esseri mostruosi che sono, dall'anima macchiata di peccato e malvagità.
È questo che dovrebbero insegnarci invece che riempirci la testa di frottole e fiabe che non si avvereranno mai.

Ero scappato.
Non ce l'avevo più fatta, ascoltare il suo racconto mi aveva lacerato dentro. Ogni parola era un colpo inferto con grande maestria.
Non avrei mai potuto immaginare. Quello che era successo, quello che aveva passato... era folle.
Tutta quella situazione lo era.

Ero scappato.
Ipocrita da parte mia, l'avevo accusata di scappare da me, avevo accusato il suo amico, Matthew, colui che l'aveva salvata da morte certa, di averla lasciata sola la sera prima, e adesso?
Avevo fatto la stessa identica cosa.

Ma come potevo restare lì, inerme davanti a quella realtà?
Come potevo restare fermo a guardare il loro dolore, la loro costernazione?
Non ci riuscivo.
La sentivo mia quella sofferenza.

Fin dal primo momento in cui l'avevo vista avevo sentito una forte connessione con lei, qualcosa che andava oltre il mero piacersi reciproco.
Quella luce triste e distante che le incupiva lo sguardo era la stessa che c'era nei miei occhi.
Le nostre esperienze erano simili.

Capivo ciò che stava vivendo perché l'avevo provato sulla mia pelle e questo non faceva altro che farmi stare peggio.
La capivo e lo stesso me ne ero andato.

Avrei dovuto solo vergognarmi, chiudermi in una torre lontano dalla civiltà e far dimenticare al mondo la mia esistenza, fino a dimenticarmi io stesso di che razza di pessimo essere umano ero stato.
Non farle vedere mai più la mia faccia.
Invece mi ero chiuso nella stanza a dipingere per tutta la notte con i pensieri che affollavano la mente, che urlavano dentro la testa con forza e aggressività.

Come può una persona tanto piccola sopportare un dolore tanto grande?

Ancora una volta aveva dato dimostrazione a tutti di quanto fosse speciale. Chiunque al suo posto sarebbe crollato definitivamente dinanzi a una tragedia del genere, ma non lei.
Non Vega Wayne.
Lei si era rialzata, ammaccata, con ferite profonde che le squarciavano l'anima.
Ma era ancora lì, in piedi, a lottare, a dimostrare quanto fosse forte.
La invidiavo per quella forza.

E ora me ne stavo inginocchiato sul pavimento a fissare quel quadro, gli occhi spalancati persi in quella vernice che abbelliva la tela di azzurro.
Azzurro.
Avevo usato un colore che non fosse il nero o il viola o il rosso.
Azzurro.
Avevo dipinto il colore dei suoi occhi.
Quel colore così particolare, caldo e freddo insieme, intenso, che mi ricordava il cielo terso.

Quella figura stilizzata, dalle linee morbide e delicate sembrava ricambiare lo sguardo disarmato che le stavo dedicando.

Ed eccomi lì, arreso e inginocchiato davanti a lei, un mix di emozioni devastanti che mi facevano girare la testa e dolere lo stomaco.
Ero tante cose in quel momento, confuso, spaventato, arrabbiato, triste, addolorato, perso.
Avrei solo voluto alleviare il suo dolore.
Ma non sapevo come e questo mi distruggeva l'anima.

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