Capitolo Dodici

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Stupido Sirio che aveva il turno notturno.
Stupida Alya che aveva deciso di andare a un appuntamento proprio quella sera.
Stupida Andromeda che era chiusa in ufficio per lavorare a un caso difficile.
Stupida Cassiopea che non rispondeva al cellulare e sembrava sparita dai radar.
Stupido, stupidissimo Altair che era in vacanza alle Hawaii.
E stupida, fottutamente stupida me che non sapevo dire mai di no.

Pestando i piedi come se avessi voluto pestare il cranio dei miei fratelli e delle mie sorelle, uno per uno, uscii dalla casa di Altair salendo in auto e sbattendo la portiera con molta forza.

La cartellina contenente quei fottuti disegni super essenziali per un progetto di vitale importanza lanciata sul sedile del passeggero insieme alla mia borsa mentre seguivo la direzione della posizione che mi aveva mandato mio fratello sul cellulare.

Li odiavo. Tutti. Dal primo all'ultimo, per avermi costretta ad accettare quel favore che non meritava. Non da me perlomeno.

Con i nervi a fior di pelle e il sangue che ribolliva nelle vene sfrecciai per le strade di San Diego per raggiungere il prima possibile la mia destinazione che si trovava nel pieno centro della città in un grande palazzo elegante e lussuoso.

Entrai nell'edificio borbottando un saluto al portiere che mi guardava curioso correre direttamente verso gli ascensori. Inserii il codice del piano che mi aveva dettato Altair e aspettai impaziente che quell'affare mi portasse nella tana del lupo.

Picchiettai nervosa il piede contando i piani, fino al tredicesimo, l'ultimo.
Le porte metalliche si aprirono con un suono su di un piano completamente vuoto tranne per l'unica porta scura.
Aveva un piano di un edificio solo per sé? Che razza di megalomane.
Stringendo la cartellina tra le mani mi avvicinai alla porta trovandola socchiusa.
Oh bene, mi aspettava.
La aprii bussando lo stesso con le nocche contro il legno pesante.

«Entra Sirio, arrivo.»

Sirio? In che senso Sirio?
Spalancai gli occhi. Oh no, ancora una volta. Quell'idiota di Altair non lo aveva avvisato che il nostro caro fratellino Sirio era impegnato e non poteva portargli quella dannata cartellina.

Lo avrei fatto a pezzi, affogato nelle acque del Pacifico appena sarebbe tornato dalle Hawaii.

Ne approfittai guardandomi intorno estasiata. Ovvio, non ci si poteva aspettare nient'altro da un architetto di fama internazionale che un mega attico con vista su tutta San Diego.

La vetrata percorreva tutta la zona del salone e della cucina. Era tutto sui toni del nero e del grigio, due grandi divani ad L circondavano un tavolino di vetro scuro basso posizionato davanti ad una tv a plasma gigantesca sospesa sul muro, al di sotto un camino a gas dal design particolare.

Una parete era rivestita di quadri, l'altra di librerie contenenti i volumi più disparati. Alla mia destra uno scalino divideva cucina, non grande quanto il salone ma abbastanza da contenere una piccola penisola, i mobili neri lucidi dalle rifiniture grigie come gli sgabelli posizionati attorno alla penisola. Poco distante un tavolo da pranzo per sei, anche quello di vetro scuro con le sedie abbinate.
Un po' fissato con quel colore.

L'ansia mi strinse lo stomaco quando un rumore proveniente dal piccolo arco che dava su un corridoio oltre i divani mi distrasse dalla mia contemplazione. Deglutii in attesa e quando una specie di peluche gigante mi venne incontro scodinzolando con la lingua fuori il mio cuore si sciolse. Il grande cagnolone mi si avvicinò odorandomi e fissandomi con quegli occhioni scuri e dolci.

«Ciao, e tu chi sei?»

Sussurrai chinandomi per accarezzarlo dietro le orecchie.
Non lo facevo tipo da cani, quella era una sorpresa.

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