Capitolo Sessantuno

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«Howard non ha contattato solo te.»

Il mio corpo era pietrificato, tessuti, muscoli, tendini, vene, capillari, ossa.
Ero diventata un unico blocco freddo e asettico.
Sentivo un ronzio incessante nelle orecchie come se uno sciame di api mi avesse presa d'assalto.
La ferita mai guarita dentro di me si riaprì, il sangue iniziò a defluire di nuovo, una lenta cascata scarlatta che si depositava ai piedi di quella bambina rinchiusa in me che la osservava terrorizzata.

Era arrivato anche lì, ancora una volta.
Dopo che le avevo promesso che non l'avrebbe più toccata.
Non avevo mantenuto la promessa.
E adesso la piccola Vega con i codini biondi e le scarpine lilla piangeva mischiando il sangue alle lacrime.

Ero scattata in piedi, il pavimento fresco a contatto con le piante nude, la camicia che mi arrivava a metà coscia e i capelli che erano finiti anche davanti agli occhi che spiritati lo fissavano in attesa che si decidesse a darmi le spiegazioni necessarie a calmare la mia ansia.

Con molta lentezza si mise a sedere al centro del letto, un ginocchio piegato e il braccio poggiato sopra, la mano che penzolante muoveva le dita con nervosismo.

«Cosa vuol dire?»

Il sussurro quasi inudibile era uscito fuori rauco.
Stupido da parte mia porre quell'insulsa domanda.
Sapevo bene cosa stavano a significare le sue parole, era solo la piccola Vega che piangente cercava di allontanarle, di non ascoltarle, non capirle.
Accusandomi di essere stata una pessima protettrice.

Per me stessa.
Per lei.
Per lui.

«Vieni qui.»

Allungò un braccio incoraggiandomi con lo sguardo carico di preoccupazione a raggiungerlo.
Scossi la testa lasciando che i capelli mi colpissero il viso quando mi strinsi le braccia affondando le unghie nella carne fino a sentire il dolore penetrante e pungente incendiarmi i nervi.

Sapevo cosa voleva dire.
Non parlava dei miei fratelli o dei miei genitori, di Matt o Claire... no.
Parlava di lui.
Corey aveva contattato lui, ancora.
E stavolta l'aveva fatto togliendosi la maschera, rivelandosi per quello che era, per chi era.

«Che cosa ti ha detto?»

Schiarii la gola cercando di riprendere il controllo di me, di placare quella sensazione alla base dello stomaco che mi rendeva irrequieta, che mi stava strizzando tutti gli organi maciullandoli pian piano fino a renderli una poltiglia inconsistente.

Sospirò esausto quando passò la mano sul viso massaggiando la base del naso.
Doveva essere stremato, le occhiaie violacee e il viso tirato ne erano un chiaro segno.

A quante cosa stava pensando? Quanti casini stava cercando di risolvere in una sola volta?
Si stava distruggendo per poter aiutare me, se stesso e la memoria di Iris senza sapere che almeno a quello ci avevo pensato io.
Era il minimo in confronto a quello che lui stava facendo per me.

«Phoenix.»

Frequentarlo in maniera così assidua mi aveva portato ad assumere molti dei suoi comportamenti come quello di ripetere il suo nome in maniera imperativa quando evitava di rispondere a qualche quesito o era restio nel parlare.
Liberò gli occhi dalla mano lasciandomi finalmente osservare quelle gemme più scure del solito.

«Poco prima di salire sull'aereo ho ricevuto una chiamata anonima, sapevo già fosse lui.»

Annuii facendogli cenno di continuare e non lasciarmi ancora sulle spine.
Stavo per vomitare a causa di tutta quella tensione.
Le vespe provate poco prima a causa delle sue attenzioni e delle sue carezze giacevano stecchite sul fondo del mio stomaco dopo quella notizia.
Inspirò forte allargando il petto muscoloso raddrizzando le spalle con uno scatto.

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