Capitolo Diciotto

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- New York City.
- Ottobre di cinque anni prima.

Bagnata come un pulcino entrai nel primo locale che trovai per la strada. Brooklyn era intasata a causa del tremendo temporale che si stava abbattendo su tutta New York e si sa i newyorkesi tendono a perdere la testa quando cade un po' d'acqua.
Anche se forse la parola "po' " non rendeva la portata di quell'acquazzone.
Stava venendo giù l'intero fottuto Oceano Pacifico.
Ignorando le occhiatacce di una cameriera che non doveva avere più di diciannove anni mi accomodai al primo tavolo libero che trovai ordinando un caffè, doppio, e una fetta di torta.

Un'altra schifosissima giornata andata sprecata. Avevo lasciato il manoscritto del mio libro a quattro case editrici nel giro di un mese e l'ultima mi aveva risposto proprio qualche minuto prima dicendo che, testuali parole:  "Ci dispiace ma il suo romanzo non ricopre gli standard che ricerchiamo in un libro."

Ma andate a farvi fottere, antipatici leccaculo con la puzza sotto al naso.
Ero stanca. Non riuscivo a ottenere risultati nonostante il mio duro lavoro e iniziavo a sentirmi demotivata.
Nella mia mente iniziava a prendere piede il pensiero di ritornare a casa.
Il mio orgoglio però mi diceva di no.
Porca miseria Vega Wayne non è una che ritorna al nido con la coda tra le gambe!

Sbuffando come una vecchia ciminiera, ringraziai la stessa ragazza che mi aveva appena servito la mia ordinazione e mi buttai a capofitto sulla fetta di torta Sacher.
Feci una smorfia disgustata.
Era secca. E insapore.
Niente a che vedere con quella di mamma Wayne, sarei tornata in quel momento a Los Angeles solo per mangiare una fetta della sua magica torta.

«Mia nonna diceva sempre che chi mangia da solo muore soffocato.»

E infatti quelle parole dette dal nulla da uno sconosciuto rischiarono di farmi soffocare.
Una briciola mi andò di traverso, tossii come una dannata colpendomi il petto. Il tizio alle mie spalle venne in mio soccorso dandomi qualche pacca sulla schiena.
Sentivo le lacrime pungermi gli occhi mentre tracannavo mezzo caffè ustionandomi la lingua.

«Ehi ehi scusa! Non dovevi prenderla sulla parola. Posso sedermi?»

E si era già seduto.
Lo trucidai con lo sguardo. Ecco l'ennesimo bellimbusto newyorkese che credeva di rabbonirmi con una finta simpatia stereotipata.
Prego fa pure!
Mi rivolse un enorme sorriso scintillate. Era sicuramente un bel ragazzo ma il suo modo di fare non mi piaceva. Mi ricordava tanto mio fratello Sirio e questo non era detto che fosse per forza un complimento.
Allungò la mano sul tavolo porgendomela affinché la stringessi.

«Matthew James piacere di conoscerti. Tu sei?»

Strinsi forte, più del dovuto facendolo lamentare.

«Una tizia che non ha alcuna intenzione di parlare con te.»

Rise e gli occhi verde-azzurri si illuminarono sotto il mio sguardo critico.

«Dai ti ho vista sola e disperata, mi hai fatto tenerezza. Nessuno dovrebbe mangiare un dolce da solo, anche se il dolce fa schifo.»

Mh non aveva tutti i torti.
Alzò le mani mostrandomi i palmi inarcando le sopracciglia.

«Giuro di non essere un serial killer.»

Sollevai la fronte.

«Chi ti dice che non lo sia io?»

Il suo sguardo si assottigliò con fare indagatore mentre mi scrutava attentamente.

«Nah troppo nella per essere una che ammazza le persone.»
«Conosco almeno dodici modi diversi per ucciderti senza lasciare tracce e far sparire il corpo senza che nessuno se ne accorga.»

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