Capitolo Ventisei

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                             Altair

La porta si chiuse alle mie spalle con un tonfo. Era notte inoltrata, avevo passato il resto della serata ad affogare le lacrime e il dolore in una bottiglia intera di bourbon nascosto in un pessimo vicolo della città lontano dagli occhi e dalle orecchie di tutti. Rinchiuso nella mia inettitudine.
Pessima idea.

Qualcuno una volta mi ha detto che l'alcol acuisce gli stati emotivi. È per questo che se siamo felici e beviamo diventiamo entusiasti, rumorosi e iperattivi. Allo stesso modo se siamo tristi tendiamo a sprofondare nella totale disperazione.
Non sapevo se la cosa avesse un fondamento specifico ma io in quel momento mi ritrovavo nel secondo girone.
Un girone infernale.

Lo stomaco bruciava e la nausea premeva contro l'esofago per far rigettare tutta la sofferenza che stavo provando.
Si può morire di dolore? Intendo quello emotivo.
Può una cosa essere così pesante da sopportare da ridurti in fin di vita?
Perché era esattamente ciò che mi stava succedendo.
Mi sentivo di morire.

Quell'immagine stampata a fuoco nel mio cervello. Quel corpo martoriato di cicatrici.
Il corpo di mia sorella.
Annientata da chi doveva amarla.
Passai la mano sotto al naso asciugando muco misto a lacrime amare.
Buttai le chiavi nella ciotola di ceramica provocando un rumore che risuonò in tutta la casa inquietantemente silenziosa.
Sophie stava sicuramente dormendo.

Cazzo. Come avrei fatto a dirglielo senza spezzarle il cuore?
Senza spezzare ulteriormente il mio?

Corey Howard.
Quel pezzo di merda.
Colui che ci aveva chiesto di costruire la sua casa editrice nuova di zecca.
Colui che aveva esplicitamente chiesto di me nella squadra per il progetto.
Figlio di puttana.
Lo sapeva. Sapeva chi fossi.
E si stava prendendo gioco di me.
Di noi.
Del suo dolore.
Stava giocando al gatto e al topo.
Ma avrei fermato quella caccia in qualsiasi maniera.

Un rumore dalla tromba delle scale poi la luce si accese accecandomi. Strizzai gli occhi con un lamento.

«Al? Sei tu?»

Aprii un occhio mettendo a fuoco la figura sfocata di Soph avvolta in una vestaglia di seta rosa, in cima alle scale.

«Va tutto bene?»

L'apprensione sul suo volto mi aiutò a realizzare quanto fossi messo male in quel momento.
Senza dire nulla mi allungò una mano e rimase in attesa che l'afferrassi.
Lo feci.
Perché era l'unica persona in quel momento che poteva evitarmi una gigantesca e rovinosa caduta.

Mi accompagnò in camera tenendomi per mano nonostante il mio barcollare e incedere incerto.
Mi aiutò a spogliarmi, senza fare domande, senza chiedermi nulla. Accettando i miei silenzi e quelle lacrime che continuavano a scivolare giù.

Le stesse lacrime che mi ero sforzato di non far vedere a Vega.
Sapevo come si sentiva, potevo immaginarlo conoscendola.
Si sentiva in colpa. Non per averci nascosto tutta la storia, no.
Si sentiva in colpa per gli effetti che la verità avevano avuto su di noi.
E invece eravamo noi a doverci sentire in colpa per lei.

Un solo singolo singhiozzo mi strozzò quando Sophie mi accolse sul suo grembo accarezzandomi amorevolmente la testa.

«Va tutto bene.»

Chiusi forte gli occhi affondando il viso nel suo addome stringendo la vestaglia tra le mani sudate.
Il grido mi graffiò le corde vocali andando a scontrarsi contro il suo corpo che lo assorbì smorzandolo.
Rimasi così, immobile a piangere come un bambino su di lei, pensando a mia sorella.
Mia sorella.

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