Capitolo Cinquantanove

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Cassiopea

La musica mi vibrava nel corpo facendomi tremare e muovere a tempo, sfogando tutte le energie negative delle ultime settimane.
Tutti i pensieri brutti, le preoccupazioni, le cose dette e quelle che non avevo avuto il coraggio di pronunciare.
I polmoni mi bruciavano a causa dell'affanno e i muscoli di tutto il corpo dolevano per le estenuanti ore di allenamento alle quali mi stavo sottoponendo.

La danza classica era sempre stata la mia unica valvola di sfogo, l'unico luogo in cui riuscivo ad essere me stessa al cento per cento. E non importava quanto male facesse, quanto i piedi sanguinassero o i tendini tirassero, tutto quello mi faceva stare bene.

Quando volteggiavo in aria mi sentivo libera da ogni pensiero e pregiudizio.
Ero solo io e me stessa.
Un confronto diretto con la parte più recondita di me.
Quella sconosciuta a molti e tenuta nascosta agli altri.

A guardarmi da fuori nessuno l'avrebbe mai detto eppure praticavo quello sport ormai da quando avevo quattro anni. Ero una giovane promessa del balletto classico un tempo, acclamata da tutti, pronta per entrare nell'American Ballet Theatre ma la vita con me amava giocare e per colpa di un brutto infortunio il mio sogno si è vaporizzato.
Puff! Tutto sparito in un battito di ciglia.

E non mi ero neanche infortunata mentre danzavo, no, ma mentre scappavo dal custode della piscina pubblica dopo aver avuto la brillante idea di fare un bagno notturno insieme a Vega e i nostri vecchi amici del liceo, tra cui il ragazzo per cui morivo.
Una corsa lungo la collina che mi era costata una caviglia rotta e crisi isteriche intervallate da stati di pianto inconsolabile e rabbia repressa per mesi e mesi.

Alla fine avevo accettato il mio destino, non sarei mai diventata prima ballerina ma ciò non mi impediva di continuare a ballare. Non con la stessa frequenza e disciplina ma soprattutto quando avevo la mente piena potevo ancora farlo, senza sforzare troppo la caviglia.

La scuola di danza dove mi allenavo era di una vecchia insegnante francese, Miss. Moreau, rude come poche, severa peggio del diavolo ma sicuramente una delle migliori maestre che avessi mai incontrato in vita mia e mi lasciava utilizzare la sala tre volte a settimana, dopo le lezioni serali, per poterla avere tutta per me.
Una manna dal cielo.

«Non è un po' tardi per allenarsi?»

Il Brisé che stavo eseguendo mi fece finire rovinosamente a terra quando quella voce mandò all'aria la mia concentrazione.
Strinsi i denti sentendo il parquet duro contro il sedere e le mani che avevo proteso per alleviare la rovinosa caduta.

Dal basso della mia dignità perduta ancora una volta lanciai un'occhiata di fuoco all'individuo che dal suo metro e un grattacielo mi guardava interessato con un ghigno stampato sul volto fresco di rasatura.
Gli occhi glaciali che risaltavano sul viso da finto angelo che si ritrovava.

«Tutto bene, bambina?»

Feci una smorfia infastidita e alzandomi avvertii il dolore irradiarsi per tutta la colonna vertebrale.

«Che ci fai qui?»

Si mosse entrando nella sala contornata da specchi e barre per allenarsi.

«Ti cercavo.»
«E perché mai?»

Pulii le mani avvicinandomi alla mia borsa, cacciai un asciugamano che passai sul viso e dietro al collo madido di sudore.
Sapevo di avere i capelli inguardabili così come me nel complesso ma poco mi importava.
Era solo quel coglione di Viktor e la sua opinione contava quanto una banconota da tre dollari per me.
Cioè inesistente.
Girò su sé stesso guardandosi intorno con aria annoiata.

«Lavoro.»

Sbuffai prendendo qualche sorso di acqua e una barretta di cereali sotto al suo sguardo criptico.

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