Capitolo Sessantadue

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                        Phoenix

Tornare a Boston era sempre un colpo al cuore, un macigno che premeva sullo stomaco rendendomi difficoltoso anche solo respirare in modo corretto.
Eppure in quel momento era l'unica cosa che poteva tenerla al sicuro, lontana da Howard e dai suoi deliri da psicopatico.

Ricevere quella telefonata mi aveva destabilizzato e non poco e non avevo fatto altro che pensare alle sue parole durante tutto il viaggio.
A riascoltare quella registrazione in loop fino a che l'aereo aveva toccato il suolo.
Conoscevo a memoria ogni parola che aveva pronunciato con tanto meschino divertimento.

Mi ero arrovellato il cervello alla ricerca di soluzioni sicure e modi per sbatterlo finalmente dove meritava di essere, non prima di avergli spaccato la faccia a dovere.

E Boston mi era sembrata l'unica alternativa plausibile in quel momento. Avevo preso la mia decisione nell'attimo in cui quella chiamata si era interrotta.
Ed ecco perché adesso eravamo nella mia vecchia città.
Per tenerla al sicuro mentre Killian faceva il suo dovere per rintracciare Ward e la talpa.

Ovviamente non ero partito da solo, mi ero portato dietro Ethan Foster, il capo della sicurezza il quale a sua volta si era portato altre due persone fidate, Johanna e Noah. Tutti e tre esperti di sicurezza, vecchi agenti dell'FBI che conoscevo da anni ormai e a cui avrei affidato la mia stessa vita.
Ed era quello che stavo facendo.
Gli avevo affidato lei.

«Voleva farmi rapire...»

Il rumore della pioggia battente sull'auto fu interrotto da quel sussurro sconvolto.
Quei pochi sprazzi di sole del primo mattino erano stati completamente oscurati dai nuvoloni grigi.
Il mio cuore si crepò davanti alla sua espressione distorta dalla paura, la stessa che avevo già visto sul suo viso.
Gli occhi cristallini, due pozze di ghiaccio brillante, mi fissavano vacui.

«Per questo mi hai portata qui, per tenermi lontana da San Diego.»

Confermai anche se a dire il vero l'idea di portarla nella mia città natale mi ronzava già da un po' in mente e non solo per metterla al sicuro.

Volevo che conoscesse i luoghi in cui ero nato e cresciuto, quelli che avevo condiviso con Iris.
Volevo che mi conoscesse davvero.
Che conoscesse il vero Phoenix, non quello ammaccato.
Volevo che mi stesse accanto l'indomani.
In quel giorno tanto buio.

«Ma non ci è riuscito.»

Provai a stringerla ma si allontanò scendendo dalle mie gambe in modo agile, il vestito le si sollevò e per un attimo mi persi nell'osservare le cosce tornite e abbronzate.

«Sì ma per quanto? Avrebbe potuto farlo, potrebbe tutt'ora farlo.»

Comprendevo la sua paura e preoccupazione perché erano le stesse che mi stavano inacidendo lo stomaco dall'inizio di tutta quella storia.

«Oppure si sta semplicemente divertendo con noi giocando al gatto e al topo.»

Proseguì sempre più agitata.
Aveva iniziato a pizzicarsi la pelle del polso destro fino a fare arrossare la zona delicata.
Con la mano ricoprii la sua per fermarla, a quel punto alzò gli occhi sui miei.

Erano spalancati e impauriti. Vi lessi dentro tutti i brutti ricordi che le stavano passando per la testa, tutto quello che aveva dovuto sopportare.
E la crepa nel mio cuore divenne più profonda e dolorosa.
Dovevo fare qualcosa per proteggerla da tutto quello.

Deglutii il groppo che mi si era formato alla base della gola sporgendo il busto verso di lei poggiando un braccio dietro il suo sedile per arrivarle più vicino.
I capelli biondi le cadevano sulla spalla creando una sorta di tendina che mi impediva di ammirare il suo viso come avrei voluto.

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