Capitolo Tredici

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Il mattino successivo mi svegliai con un doloroso e pressante cerchio alla testa, mi risultava difficile anche tenere gli occhi aperti. Sapevo cosa mi stava succedendo, ci ero abituata. Quando il mio corpo subiva un forte stress emotivo somatizzava con la febbre.

Mi sentivo accaldata e al tempo stesso brividi di freddo mi scuotevano il corpo.
Presi il cellulare lasciato sul cuscino, Matt doveva aver chiuso la telefonata prima di andare al lavoro, sbadigliando mi diressi in bagno per prendere il termometro e farmi una doccia bollente.

Proprio come sospettavo, la mia temperatura era pari a trentotto gradi e mezzo.
Vai così Vega, tu sì che sai come affrontare al meglio l'ennesimo trauma emotivo.

Anche se ero senza forze mi costrinsi a darmi una sistemata e mettermi al lavoro al computer. Dovevo preparare tutto per il viaggio a New York che avrei fatto nelle prossime settimane, avevo un paio di interviste da fare e dovevo presenziare a una riunione per il progetto del film.

Con una doppia dose di caffeina e del paracetamolo in corpo mi dedicai al mio lavoro che mi tenne occupata per tutta la mattina, per fortuna, almeno non ero caduta nel vortice demolitore dei miei pensieri.

Quando però il lavoro finì e niente riusciva più a tenermi occupata la mia mente scivolò inevitabilmente nel buco nero delle mie emozioni e del senso di colpa che affamato stava banchettando allegramente con me, con la mia anima già martoriata.
Non riuscivo a pensare ad altro che a quello che era successo, quello che avevo fatto.

Lo avevo picchiato. Gli avevo dato uno schiaffo.
Io.
Io che conoscevo bene quella sensazione.
Io che sapevo ciò che si provava nell'avvertire la pelle dolorante e martoriata.
Io che mi ero ripromessa di non alzare mai un dito contro un altro essere umano.
Io che avevo paura di qualsiasi tocco a causa di quel trauma che mi annientava.

Cosa ero diventata?
In che mostro mi stavo trasformando per colpa dei miei demoni interiori?
Gliela stavo dando vinta... mi stavo arrendendo.

Raccogliendo le gambe contro il petto mi dondolai sulla sedia come una pazza, una coperta pesante ad avvolgere il mio corpo sempre più magro scosso dai tremiti che nulla avevano a che vedere con la febbre. Fissavo il muro davanti a me senza realmente vederlo, persa nel labirinto della mia testa offuscata.

E lui...

Lui che voleva solo aiutarmi, farmi aprire gli occhi.
Mostrarmi la realtà dei fatti, la sofferenza che avevo causato a tutti.
Lui che l'aveva fatto senza remore, senza pensare di dovermi proteggere come una bambina.
Era stato diretto, crudo, senza preoccuparsi di ferirmi.
E gli occhi me li aveva aperti davvero, dandomi uno scossone deciso.
Ero stata così egoista, proprio come aveva detto lui.

Avvertivo ancora il formicolio sulle labbra dove le sue si erano posate con la leggerezza di una piuma.
Non mi aveva baciata.
Aveva impedito al panico di prendere il sopravvento su di me dandomi una distrazione valida.
Mi aveva salvata dalla mia stessa paura.

C'era un'altra emozione da tenere sotto controllo però e da non sottovalutare, ancora più pericolosa della paura... il disgusto.
Quello che stavo provando in quel momento verso me stessa. La nausea mi stringeva lo stomaco ma mi imposi di non correre in bagno a vomitare.

No.
Lo meritavo.
Meritavo di stare così male.
Ero stata io la cattiva.
Meritavo quella sofferenza.

Strinsi forte la mano contro le labbra premendole così tanto contro i denti che avvertii il sapore ferroso del sangue invadermi la bocca e la lingua.
Chiusi gli occhi lasciando che le lacrime dovute ai conati trattenuti mi rigassero le guance.

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