Capitolo Settantaquattro

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                         Viktor

«Non mi parli adesso?»

Ignorai Cassiopea seduta accanto a me su quelle scomode sedie di plastica blu della sala d'attesa dell'ospedale tenendo lo sguardo puntato su quella minuscola ragazza mangiata viva dal dolore.
Avrei dovuto parlare con quel coglione del mio migliore amico ma sapevo che al momento aveva bisogno di restare solo e calmarsi.
Lo avrei preso a calci in culo dopo.

Da quando aveva lasciato l'ospedale incazzato peggio di una iena Vega non si era più mossa dal suo posto ricadendo in quello stato di passività che mi aveva fatto saltare i nervi ore prima.

Fottuto Howard, fottuto Ward e fottuta situazione del cazzo che ci stava mandando a pezzi.
Tutti noi.
Avevo tentato di spronarla, stuzzicandola per far uscire quel suo lato combattivo.

Non riuscivo a vederla in quello stato, provavo una stretta al cuore ogni volta.

«Non parlo con le bambine viziate ed egoiste.»

Un ringhio basso da parte sua che continuai ad ignorare.
Dopo lo straziante abbraccio di gruppo al quale avevo assistito Vega non aveva permesso più a nessuno di avvicinarsi o toccarla.

«È mia sorella, non potevo far finta di niente e lui-»

Mi voltai fulminandola con lo sguardo inchiodandola sulla sedia.
Il viso pallido e gli occhi arrossati mi restituirono uno sguardo timoroso.

«È la mia cliente e lui il mio migliore amico. Non spettava a te dire quelle cose soprattutto davanti agli altri. Sono affari loro non nostri, impara a non impicciarti una volta tanto.»

Lasciandola a bocca aperta mi alzai raggiungendo il corpo raggomitolato di Vega. I capelli chiari le coprivano il viso e le spalle che abbracciavano strette le ginocchia al petto.
Le diedi un colpetto sul braccio richiamando la sua attenzione.
Sollevò gli occhi cangianti su di me con aria inespressiva.
Mi limitai ad un cenno della testa per indicarle la porta.
Aveva bisogno di aria o sarebbe soffocata lì dentro.

Senza aprire bocca o protestare si alzò dalla sedia seguendomi come un automa fuori dall'ospedale.
L'aria fredda della notte ci investì e lei rabbrividì nella felpa che le stava due volte addosso.
Sorrisi impercettibilmente riconoscendola come quella di Phoenix.
Suoni di sirene lontane circondavano il grosso edificio riempiendo la quiete notturna.

Tirai fuori dalla giacca un pacchetto di sigarette prendendone una per me e una per lei. La accettò in silenzio.
Non sapevo fumasse o forse lo faceva solo in momenti del genere, quando la terra sembrava volersi aprire ai suoi piedi e risucchiarla.

Le porsi lo zippo, lo afferrò accendendo al volo la sigaretta.
Aspirò socchiudendo gli occhi a causa dei rivoli di fumo e poggiò la schiena contro il muro ruvido dietro di noi.
Tossì piano sorridendo e fissando la punta bruciante della sigaretta restituendo lo zippo.
Imitai tutti i suoi gesti.

«Ho sempre odiato questa roba, è colpa di Matt se ho iniziato la prima volta. Era un coglione scapestrato quando l'ho conosciuto, con lui ho avuto i peggiori hangover della mia vita.»

Mi ritrovai a ricambiare quel sorriso flebile.

«Una volta ci siamo svegliati a Cancùn, dopo esserci scolati due bottiglie di tequila e fumati dell'erba. Volevamo festeggiare l'uscita del primo libro peccato che non abbiamo presenziato alla presentazione troppo fatti e ubriachi... e in un altro Stato.»

Ridacchiai aspirando una grossa boccata di fumo guardandola divertito.
Sentivo uno strano e alquanto fastidioso senso di protezione nei suoi confronti.
Ne aveva passate Dio solo da quante eppure aveva ancora il coraggio di mettere gli altri avanti a lei.

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