Capitolo Sessantacinque

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Phoenix

Non avevo mai provato prima una sensazione del genere. Quella del tradimento. Non sapevo neanche cosa comportasse, come il mio corpo e la mia mente avrebbero mai potuto reagire dinanzi ad un evento del genere.

Non mi ero mai posto il problema perché non avevo mai dato così tanta fiducia a una persona.
Non mi ero mai fidato in una maniera così pura e incondizionata.
E adesso capii il perché non mi ero mai lasciato andare così tanto.

Perché quando succedeva, quando la si provava quella sensazione, faceva male come se pugnali incandescenti intrisi di veleno avessero trafitto il cuore e lo stomaco atrofizzandoli.

Era così che mi sentivo. Mi sembrava di avvertire il sangue defluire da una ferita che però non c'era, era solo nella mia testa, nella mia anima.
Lo rivedevo ancora davanti agli occhi, quel piccolo rettangolo di carta ruvida con quella scritta dorata ed elegante sopra.
Un segno distintivo.
Il suo.
Scott Carter.

Non ci potevo credere, non riuscivo a capacitarmi del fatto che avesse parlato con lui. Che avesse quel biglietto da visita nella sua borsa.
Perché?
Perché mi aveva fatto quello?
Fu peggio di quando cercò di lasciarmi, il dolore provato superava anche quello.
Forse dovevo solo arrendermi alla vita una volta per tutte.
Me ne aveva dati tanti di avvertimenti dopotutto.
Io non potevo essere felice, non potevo neanche provarci.

Succedevano quelle cose ogni volta che tentavo.
Venivo ferito.
Allontanato.
Tradito.

Ma lei... non me lo sarei aspettato da lei.

Deglutii a fatica aumentando i colpi sul sacco da boxe. Il sudore mi lambiva il corpo mentre scatenavo tutta la mia furia su di lui.
Non avevo potuto chiederle spiegazioni prima perché l'avevo trovata profondamente addormentata in auto.
E il mio cuore si era stretto un po' di più, e ancora di più quando prendendola in braccio per portarla in casa si era accoccolata sul mio petto bisbigliando il mio nome nel sonno.

Perché, perché, perché Vega?

Una fitta al centro esatto del petto e la vista che si appannò appena.
Tirai un altro pugno, così forte da sentire la pelle spaccarsi.
Non avevo indossato i guantoni, non mi servivano protezioni avevo solo bisogno di sentire il dolore fisico, il bruciore dovuto ai tagli sulle mani per poter lenire anche solo un minimo quello che provavo dentro.

L'avevo messa a letto, coperta, lasciata cullare da quel sonno lenitivo di cui necessitava.
Ancora una volta il suo benessere veniva prima di tutto per me.
Nonostante tutto.
Nonostante dentro stessi bruciando lentamente di quella rabbia così antica da dissanguarmi.

Ed ero andato a rinchiudermi nella palestra presente al primo piano del palazzo passando tutto il resto della giornata lì a sfiancarmi.
Fino a sentire i muscoli implorare pietà e le mani sanguinare dalle nocche scorticate.

Chiamare Jeffrey e ordinargli di preparare il jet per il suo ritorno a San Diego mi aveva causato un gigantesco nodo in gola.
Ma era necessario.
Dovevo tenerla lontana da me almeno fin quando non mi fossi calmato a dovere e avessi sfogato tutto quello che stava ribollendo sotto la pelle.
Non la volevo accanto, non senza una spiegazione valida.
Non quando non riuscivo neanche a guardarla.

Potevo sembrare esagerato ma davvero non ce la facevo dopo tutto quello che avevo passato a causa di Scott Carter.
Sapere che si fosse coalizzata con lui per uno dei suo folli e silenziosi piani mi mandava in bestia.
Aveva chiesto il suo aiuto per qualcosa, ne ero certo e non mi andava giù.
Me l'aveva tenuto nascosto.

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