Capitolo Sessantasette

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Un déjà-vu che si ripeteva.
Io che in lacrime lasciavo casa sua.
Ancora.
Ancora una volta mi ritrovavo inginocchiata a piangere chiusa in un'ascensore.
Che brutto senso dell'umorismo aveva la vita.
Non sapevo se ridere amareggiata da tutto quell'accanimento contro di me o continuare a piangere.
Recuperando tutto l'amor proprio di cui disponevo mi rimisi in piedi sulle gambe molli peggio di gelatina che sembravano aver difficoltà nel sostenermi.

Lo avevo ferito, deluso, ed era quello a farmi stare peggio. La consapevolezza di aver tradito la sua fiducia.
Ma era così cocciuto da non voler neanche impegnarsi a capire le motivazioni del mio gesto, potevo accettare che fosse incazzato e obnubilato dalla rabbia... ma poteva almeno sforzarsi di comprendermi invece che mandarmi via come se contassi poco meno di niente.
E poi cosa avrei dovuto fare? Tornare a San Diego e starmene chiusa in casa ad aspettare che Corey mi trovasse o che qualcuno venisse a salvarmi?
No, grazie.

Non avevo bisogno di essere salvata da nessuno, ci ero riuscita da sola una volta lottando con le unghie e con i denti per restare aggrappata alla vita.
L'avrei fatto ancora dimostrando a tutti che non avevo bisogno che qualcuno venisse a tirarmi fuori dalla torre perché l'avrei distrutta con le mie mani e poi sarei uscita trionfante tra le macerie.
Sporca.
Rotta.
Ammaccata.
Ma viva e libera.

Nella mia storia non c'erano principi e principesse.
Nella mia storia c'ero solo io, Vega, una semplice ragazza disillusa a causa delle troppe relazioni finite male ma nonostante tutto ancora innamorata dell'amore.
Così tanto innamorata da cadere nel tranello della finta perfezione.

La finta perfezione fatta di sorrisi e rose profumate trasformatesi in fiori dall'olezzo marcio e putrefatto come colui che me le donava.
Rincorrevo il sogno dell'amore idilliaco.
Era stata forse quella la mia condanna?

Credere ostinatamente in qualcosa che forse nella realtà neanche c'era.
Probabile.
Ma non avevo ancora perso la speranza.
Poteva torturarmi, distruggermi la mente e il corpo ma non avrebbe mai e poi mai spento il fuoco della speranza che ardeva nel centro esatto del mio cuore.

Quando le porte si aprirono uscii dall'ascensore con il mento alto e la determinazione che mi scorreva nelle vene soffocando il mio cuore urlante di dolore.
Un uomo in divisa era fermo davanti al portone del palazzo, le mani incrociate dietro la schiena e il viso rivolto verso le scale.
Inarcai un sopracciglio incuriosita.
Dov'erano i miei babysitter?

Al suono dell'ascensore che si apriva l'uomo spostò immediatamente lo sguardo su di me e i suoi occhi azzurri scintillarono, il sorriso che mi rivolse increspò la cicatrice che aveva sull'occhio destro.

Si incamminò verso il mio sguardo circospetto, irrigidii istintivamente tutti i muscoli mettendomi sul chi va la. Non ero più molto allenata ma sapevo ancora come mettere al tappeto o almeno recuperare un po' di vantaggio soprattutto se il mio avversario faticava a camminare come nel suo caso.

«Miss Wayne?»

Annuii rapida e lui si avvicinò ulteriormente.

«Sono l'agente Chris Norton, è stato l'agente Foster a mandarmi per condurla all'aeroporto. Posso farle vedere il distintivo, capisco che non si fidi data la situazione tesa.»

Cacciò fuori il distintivo ed io mi avvicinai per leggere e confrontare la foto con la sua faccia. Sembrava veritiera così mi ritrovai ad accettare di seguirlo.

«È meglio passare dal retro, abbiamo timore di pensare che qualcuno vi abbia seguito qui a Boston. L'auto è proprio qui fuori.»

Un po' scettica decisi comunque di fidarmi mentre la mia testa iniziava già a mettersi in moto.
Zittii i pensieri brutti, ero ancora sconvolta per la litigata e non sapevo se fidarmi effettivamente delle mie sensazioni alterate.
Seguii l'agente Norton sull'uscita laterale del palazzo che portava in una strada isolata e chiusa.
L'auto blu era proprio lì come aveva detto.

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