Capitolo Cinquantasette

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Phoenix

Crack.
Il primo bicchiere volò contro il pavimento.
Seguito dal secondo.
Poi il terzo.
Il quarto.
E tutto il tavolino sul quale erano poggiate le bottiglie di liquore che di solito avevo più per bellezza.
Adesso erano vuote e i frammenti di cristallo riversi sul pavimento dello studio che brillavano come diamanti ogni volta che un raggio di sole andava ad infrangersi contro di loro.

Ero chiuso lì dentro da ore, da quando avevo lasciato la casa di Vega come una furia ma con il cuore spezzato.
Mi venne da ridere e permisi a quella piccola risata di scuotermi il petto mentre me ne stavo seduto sul pavimento contro la scrivania.

La camicia sgualcita e aperta, i capelli sfatti per le troppe volte in cui ci avevo passato le mani come a volerli strappare e le gambe allungate.
E leggermente ubriaco.
Fanculo.
Non pensavo neanche di poter più soffrire per un cuore spezzato e invece a trent'anni compiuti mi ero fatto fregare come un ragazzino da lei.

La bella serata passata insieme sfumata via come se niente fosse stato.
Stupida orgogliosa.
Mi stava nascondendo qualcosa, cercava di distrarmi da qualcosa additando scuse assurde su di noi.
Lo sapevo ma questo non voleva dire che faceva meno male.
O che le sue parole facessero meno male.

No, erano affilate come rasoi che mi avevano tagliato la carne a ogni parola pronunciata.
Avevo accettato tutto, davvero, che non volesse più vedermi, che quello che c'era tra noi per lei non fosse così importante ma non quello, non che pensava che io fossi come quello stronzo.
Quello aveva fatto male più di tutto.

Non riuscivo a stabilire cosa stessi provando, dentro di me vorticava un uragano di emozioni ambivalenti.
Amore e odio.
Rabbia e frustrazione.
Gio- no quella no, neanche a pagarla la vedevo.

Chiudendo gli occhi picchiai il capo contro la superficie dura della scrivania in modo ritmico fregandomene del mal di testa che già mi stava annebbiando il cervello insieme ai fumi dell'alcol.
Cosa si era messa in testa?
Che cosa era cambiato in dodici ore?
E dove stava andando?
Domande, domande, sempre e solo domande e mai una cazzo di risposta.

Il cellulare, abbandonato a poca distanza da me, cominciò a squillare peggiorando il mio mal di testa.
Lamentandomi mi allungai con fatica per prenderlo.
Non ci speravo neanche che fosse lei.
E infatti il nome di mio padre capeggiava al centro dello schermo.
Di male in peggio.
Afferrando l'unica bottiglia rimasta ancora intatta bevvi un lungo sorso per infondermi un po' di coraggio dopodiché risposi.

«Che vuoi?»
«Dobbiamo parlare. Raggiungimi al mio hotel.»

Sempre dispotico.
Sempre rompicoglioni.

«È già una giornata di merda, tu la stai solo peggiorando. Non chiamarmi più, ti ho già detto che non verrò.»
«Alexander!»

Tuonò irritato come faceva quando gli andavo contro.
Alexander.
Doveva essere qualcosa di serio se mi chiamava così.

«Bene, se non vuoi venire tu da me verrò io da te.»

Cercai di ribattere ma aveva già attaccato lasciandomi come uno stupido a guardare lo schermo del telefono dove come sfondo c'era una sua foto che avevo scattato mentre dormiva nel mio letto.

Alzandomi barcollando mi catapultai in bagno aprendo il getto freddo della doccia e spogliandomi in contemporanea.
Dovevo riprendermi.
Accidenti a me, cosa mi era saltato in mente? Bere durante il giorno, bere in generale!

Mi ero ripromesso che non l'avrei più fatto ma quella dannata ragazza mandava a fanculo tutti i miei buoni propositi.
Permisi all'acqua gelida di risvegliare i neuroni dormienti permettendomi di riprendermi almeno in parte e non fare la figura del coglione davanti a mio padre peggiorando ulteriormente la percezione che aveva di me.

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