Capitolo Undici

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                         Phoenix

La psicologia ha affermato che esistono due tipologie di emozioni: primarie e secondarie.
Le emozioni primarie che l'essere umano è in grado di percepire sono sei, dalle quali poi hanno origine tutte le altre.
La rabbia, la tristezza, la paura, il disgusto, la gioia e la sorpresa.

Da sei anni a quella parte l'unica emozione che provavo era la rabbia, una rabbia cieca e sorda che si alimentava dei miei pensieri, una rabbia distruttiva che non permetteva a nient'altro di entrare nel mio corpo. Non esisteva paura o sorpresa o tristezza... o gioia.

Solo rabbia intervallata da rari e fittizi momenti di pseudo tranquillità.
Forse il mio sistema emotivo non era più capace di provare altro che non fosse quell'emozione devastante e bruciante che sembrava volermi corrodere dall'interno con il suo acido cibandosi dei miei organi e avvelenando i miei pensieri.

Quella giornata era iniziata male per colpa dell'ennesima telefonata di mia madre e proseguiva sempre peggio. Ero tornato da Los Angels da due giorni e in mia assenza le cose in studio sembravano essere peggiorate, qualche idiota aveva cancellato dai computer l'intero progetto per la Howard Publishing e adesso ci ritrovavamo letteralmente nella merda.

La scadenza si avvicinava sempre di più e non avevamo più un fottuto progetto. Avevo già incaricato Olivia, la mia assistente, di scoprire chi aveva combinato quel guaio e licenziarlo in tronco. Non erano ammessi errori di quel tipo.

Quindi mi ritrovavo chiuso in studio oberato dal lavoro, avevo chiamato a raccolta tutti per poter lavorare solo su quel progetto ma con Altair in vacanza alle Hawaii sarebbe stato difficile, non lo ammettevo spesso ma era davvero il migliore architetto che lavorasse per me.
Che rientro fantastico.
Due colpi alla porta di vetro offuscato mi avvisarono dell'arrivo di Olivia.

«Phoenix scusami se ti interrompo, c'è la signorina Wayne che vuole vederti, le dico che sei impegnato?»

Aggrottai le sopracciglia posando la matita e i fogli sui quali stavo buttando giù degli schizzi per il progetto.
Che ci faceva Cassiopea in studio a quell'ora? Dovevamo vederci nel pomeriggio.

«No, no falla entrare.»

Borbottai ancora un po' confuso riprendendo il mio lavoro.
Il rumore di tacchi sul pavimento di marmo nero risuonò nell'ufficio ma non alzai la testa concentrato com'ero.

«Perché sei già qui, Cass?»

Il rumore di passi si spostò alla mia sinistra dove l'ampia vetrata permetteva di ammirare l'oceano e il fluire incessante della vita di San Diego, ma da fuori non era possibile vedere l'interno dell'edificio.

«Sorella sbagliata, forse dovevo specificare quale Wayne fossi a quella graziosa ragazza.»

I miei occhi scattarono sulla figura che mi osservava dall'altro lato della grande scrivania piena di fogli e matite da disegno. Le braccia nascoste dietro la schiena mentre dondolava sui talloni con aria innocente.

La visione del suo corpo slanciato fasciato da un abitino bianco tempestato di piccoli fiorellini mi provocò un sussulto e avvertii distintamente il cuore fare un sobbalzo.
Vega.

«Spero di non disturbare.»

Allontanai la sedia dalla scrivania alzandomi per raggiungerla.
Non l'avevo più vista da quando eravamo tornati, quindi da due giorni che mi erano sembrati interminabili. Quella ragazza aveva un effetto destabilizzante su di me e non ancora ero riuscito a capire se fosse una cosa buona o meno.

«Non disturbi, è successo qualcosa?»

Era troppo ardire sperare che fosse venuta lì solo per vedermi?
Il suo volto abbronzato sul quale spiccavano quei lapislazzuli magici si illuminò con un piccolo sorriso che le faceva arricciare il naso e metteva in evidenza le lentiggini.

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