Capitolo Trenta

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John

Quando si è genitori c'è una cosa che si cerca di fare per tutta la vita e al meglio delle nostre possibilità. Dal momento in cui i nostri figli emettono il primo vagito sappiamo che il nostro lavoro sarà cercare di proteggerli, ad ogni costo, dai numerosi pericoli che la giungla della vita gli mette davanti. E così facciamo o cerchiamo di fare.

Li seguiamo lungo il corso dell'infanzia e dell'adolescenza stando attenti ai più piccoli segnali di cambiamento. Stiamo attenti a cosa gli diamo da mangiare, ai luoghi dove li portiamo a giocare, alle persone che incontrano e con cui fanno amicizia. E ci sentiamo sicuri, convinti di aver fatto un buon lavoro. Con la coscienza a posto e il sonno tranquillo.
Li prepariamo alla vita.

Ma cosa succede quando abbandonano il nido?
Semplice, vanno alla scoperta del mondo. Sono ormai grandi, consapevoli e capaci.
Sanno cavarsela da soli.

E se così non fosse?

Cosa prova un genitore, un padre, nel sentir raccontare dalla propria figlia di essere stata quasi uccisa da un uomo. Un ex fidanzato. Colui che avrebbe dovuto proteggerla dopo di me. Colui che avrebbe dovuto prendersene cura, rassicurarla nei suoi momenti bui e accarezzarla quando era triste.
Lo stavo sperimentando in quel momento.

Ero un uomo di scienza, ne capivo poco di emozioni e meccanismi mentali però potevo asserire con certezza che il mio cervello si era appena messo in stand-by. Stava cercando di razionalizzare ciò che mia figlia - mia figlia - mi aveva raccontato scombussolando il mio, il nostro asse terrestre.
Ed eccola lì. Una giovane donna forte e indipendente davanti ai miei occhi, lasciata crollare a terra da un amore malato.

Non avevo svolto bene il mio ruolo. Non ero stato attento, non le avevo insegnato che non tutti gli uomini sono buoni. Alcuni sono feroci, bestie travestite da umani pronti a sbranare povere donne che decidono di fidarsi di loro.

Quando sentiamo certe notizie al telegiornale ci indigniamo, proviamo pena per la vittima e dispiacere per i familiari. Pensiamo sempre che sia una realtà lontana da noi, che non potrebbe mai toccarci da vicino.

E invece... il male non è mai troppo lontano, non ti guarda in faccia, per lui siamo tutti uguali.
Giovani o anziani.
Belli o brutti.
Ricchi o poveri.
È una roulette russa con la vita.

«Non ci sono molte stelle stasera.»

Infilai le mani nelle tasche dei pantaloni. Era seduta sul dondolo in giardino, una coperta ad avvolgere il corpo troppo magro. Lo stesso corpo debole, fragile e delicato martoriato da quell'essere abominevole. Repressi l'istinto di stringermela contro e cullarla come quando era una pupattola di tre anni che scorrazzava per casa e mi chiedeva di raccontarle i miti e le leggende legate alle stelle. Aveva sempre avuto quell'innata curiosità verso tutto, doveva sapere quante più cose possibili, e restava ore ed ore ad ascoltarmi parlare incantata. Poi correva a spiegare a tutti ciò che aveva appena imparato.

Era sempre stata molto intelligente, immensamente furba e troppo, troppo buona verso chiunque:

«Bisogna essere gentili papà, non sappiamo cosa stiano passando le persone. Un atto di gentilezza può migliorare la loro giornata e riempire la nostra.»

Mi veniva naturale chiedermi se fosse capitato lo stesso, se non fosse stata così gentile e disponibile sempre. Forse se avesse avuto un pizzico in più del carattere scontroso di Cassiopea non le sarebbe successo tutto quello. Scossi la testa alzando gli occhiali. Era inutile fare supposizioni in quel momento.

«Hanno deciso di nascondersi.»

Mormorò triste, il naso all'aria e gli occhi fissi sulle poche stelle che brillavano quella sera. La raggiunsi sedendomi accanto a lei, con il piede diedi una piccola spinta per far partire il dondolo.

«La mamma?»

Tirai un sorriso spento, come i miei occhi e come i suoi. L'avevo ascoltata parlare con Alya, nascosto dietro la porta socchiusa della stanza. Adesso, lontano da tutti, davanti ai miei soli occhi si lasciò finalmente andare a quello che davvero provava. Il viso distrutto, stanco. Era l'ombra di se stessa. L'ombra della bambina gioviale e ridente che mi aveva fatto innamorare con i suoi occhioni di ghiaccio.

«Starà bene, tutti staremo bene.»

Stavolta fu il suo turno di sorridere fintamente. Già, avrei voluto dirle, non saremmo stati bene, inutile affermare il contrario. Ma potevamo provarci, donandoci sostegno l'un l'altro, come avevamo sempre fatto come famiglia.

«Quante ne riesci a contare?»

Ridacchiò. Quel piccolo gioco che facevamo quando era piccola, se riusciva a contare dieci stelle voleva dire che avrebbe trovato la sua anima gemella.

«Credi funzioni? Io non più ormai.»

La voce bassa, spezzata mentre i suoi occhi diventavano più luminosi di quelle poche stelle nel cielo. Afferrai la sua mano stringendola tra le mie, il suo sguardo scese su di me.

«Credo di aver sprecato la mia opportunità.»

Sentii il suo dolore come se fosse il mio, come se fossi io a provarlo e forse era proprio così. C'è un legame particolare tra padre e figlia, una connessione speciale, qualcosa che va oltre la ragione umana.

«Non dirlo neanche per scherzo.»

Con la mano libera asciugò la guancia abbassando lo sguardo sulla coperta azzurra, era sempre stata fissata per quel colore in tutte le sue sfumature.

«Tu pensi che passerà mai, papà? La paura intendo, quel senso di inquietudine che mi segue ovunque vada, qualsiasi passo io faccia, qualsiasi azione io compia. Mi sembra di sentire ancora le sue mani addosso, il suo odio verso di me... è estenuante. Delle volte vorrei solo chiudere gli occhi e smettere di sentire tutto.»

Finalmente crollò davanti a me, la circondai con le braccia lasciando che si sfogasse contro il mio petto mentre continuavamo a dondolare.

«Passerà, te lo prometto stella, ma non sarà facile. Io però ti conosco, so che sei forte, sei la persona più forte e testarda che abbia mai conosciuto. E se non dovesse passare sappi che ci sarà il tuo papà con te, mi prenderò tutto il tuo dolore, lasciandoti libera di respirare. Non permetterò più che nulla ti faccia del male Vega.»

Rimanemmo in silenzio per un po' ristabilendo quel contatto che ci era stato strappato con forza e cattiveria. Quella piccola donna rannicchiata su di me non mi era mai sembrata più fragile. La mia bambina. Gettata nell'abisso oscuro dell'odio e della paura, lasciata annegare da un bastardo che l'avrebbe pagata cara.
Chiusi gli occhi regolando il respiro e stando attento a non emettere il minimo suono mentre quelle lacrime di lava scendevano lungo il viso.

«Quando ti senti persa voglio che tu alzi gli occhi e guardi le stelle, voglio che ti ricordi da dove vieni, chi sei e ciò che hai fatto nella tua vita. Sei forte, potentissima, un razzo che vola verso quell'universo che ti appartiene e niente, niente e nessuno può farti cadere Vega. Neanche uno stronzo del genere, soprattutto lui. Pagherà tutto.»

Annuì piano tirando sul con il naso e stropicciando un occhio ricordandomi quella bambina che avevo perso.
Alzai gli occhi al cielo giusto in tempo per vedere una striscia luminosa attraversarlo. Sorrisi con le lacrime agli occhi.

«Guarda il tuo cielo stella, conta le tue sorelle ed esprimi un desiderio. Siamo a cavallo della notte di San Lorenzo.»

Quelle parole ebbero l'effetto desiderato, si allontanò da me e puntò gli occhi verso l'infinito blu. Il viso le si illuminò mentre qualche altra stella cadente faceva capolino tra l'oscurità. Si alzò camminando a piedi nudi nell'erba ed io la seguii.

«Quante sono, Vega?»

Rise, con le lacrime che tornarono a bagnarle le guance rosse.

«Dieci, sono dieci papà.»

L'abbracciai e lei poggiò la testa sulla mia spalla chiudendo gli occhi concentrandosi.

«Pensa a qualcosa ed esprimi un desiderio. Ricorda, le stelle non sbagliano mai, basta solo seguire la propria









Eccolo qui, pov di papà Wayne, ve lo aspettavate? Ancora una volta terzo aggiornamento, inizio davvero a viziarvi, devo darmi un regolata mi sa.
Anywayyy ditemi che ne pensate! Ci vediamo domani!
Se volete mi trovate su Ig per qualsiasi cosa, grazie e bacini 💕🌌

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