Capitolo Ottantacinque

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Mi ero ripromessa di essere coraggiosa, se non per me almeno per mia sorella.
Mi ero ripromessa di essere fredda. Decisa.

Eppure il mio corpo tremava in modo incessante mentre con gli occhi impauriti osservavo la porta che si stagliava davanti a me.
Era grande, di metallo che una volta doveva essere stato dipinto di rosso ma adesso era solo ricoperto di ruggine e in alcuni punti scrostato a causa del tempo e delle intemperie a cui era stato sottoposto negli anni.

Dovevo essere vigile, sveglia, non farmi prendere dalla paura e invece eccola lì che mi abbracciava con i suoi tentacoli viscidi muniti di tanti piccoli artigli aguzzi che si incastravano nella carne.

Mi guardai intorno cercando una possibile via di fuga, se mai fossimo riuscite a scappare.
Se mai fossi sopravvissuta anche io.

Campi, campi e ancora campi davanti e intorno a me. L'unica strada percorribile era quella dalla quale ero venuta ma sapevo nel momento in cui ero scesa che avrei dovuto togliere di mezzo la possibilità di poterla percorrere a ritroso con l'auto.

Camminai piano sentendo lo scricchiolio dell'erba secca e della ghiaia sotto le suole delle scarpe.

Il rumore mi fece rabbrividire, trattenni il fiato, strinsi forte il cellulare che non aveva campo, ovviamente, e con molta lentezza e un peso sul cuore andai incontro a ciò che mi aspettava dietro quella porta.

Cos'avrei dovuto fare? Aprirla e basta? Aspettare che uno dei due stronzi venisse ad accogliermi? Ero certa del fatto che sapessero che ero arrivata, in quel silenzio assordante il rumore di un'auto era perfettamente distinguibile.

Spinsi il mio corpo in avanti ma quello non si mosse, ero pietrificata davanti a quell'imponente casolare abbandonato incapace di muovermi. Provai di nuovo ma ancora una volta il corpo mi tradì non rispondendo all'impulso di andare avanti, correre a salvarla. Era come se il mio cervello stesse finalmente percependo il pericolo di quella situazione e si rifiutasse di mandarmi lì, ancora una volta, nel mio incubo personale.

Ma stavolta non si trattava solo di me.

C'era mia sorella lì, tra le sue grinfie, ed io non potevo, non potevo permettere che le accadesse anche una briciola di ciò che avevo passato io. Quello non me lo sarei mai perdonato.

E forse fu quella consapevolezza, quella certezza a farmi muovere o forse fu il lamento acuto che mi arrivò alle orecchie, attutito dalla porta chiusa ma arrivò lo stesso. Forte e chiaro. 

Fu semplice avvicinarsi e spalancare la porta, neanche avvertii la pesantezza del ferro o la ruvidità della vernice secca e mezza scrostata che mi lasciò dei residui sui palmi delle mani.

Scappai dalla presa della Vega livida e tumefatta che mi pregava di non entrare lì perché non ne sarei mai più uscita. Strattonai le manine piccole e deboli della piccola Vega con i codini che batteva le scarpe lilla e piangeva pregandomi di non farle quello. 

Di non ucciderla ancora.

Mi liberai di loro, della mia coscienza, del mio amor proprio... dell'unica salvezza che mi rimaneva. Le lasciai nella loro piccola stanza senza finestre né luce, le chiusi lì dentro a disperarsi per me, per noi. Ed entrai.

Il casolare era fiocamente illuminato, era ampio e freddo. Un forte odore di polvere e muffa mi punse il naso costringendomi ad arricciarlo. Deglutii guardandomi attorno con circospezione, sembrava vuoto ma era grande. Due pilastri di cemento grossi quanto tronchi di una quercia dividevano la stanza permettendo di entrare nella zona più scura.

Catturai con lo sguardo quanti più dettagli possibili vagliando una possibile via di fuga, due finestre erano mezze rotte, riuscendo a rompere il restante vetro sarebbero state un'ottima via di fuga, peccato che fossero troppo in alto. Adocchiai lì accanto però una serie di vecchi bidoni d'acciaio. Sarebbero tornati utili per raggiungere una delle due finestre... o per nascondere dei cadaveri.

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