Capitolo 21

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Astrid
Quando mi trovo Jason sulla soglia della porta per poco non ho un mancamento. È lì, immobile, con gli occhi saturi di lacrime e con la foto di Elia e me in mano. Mi chiede ripetutamente spiegazioni, ma sono come pietrificata, incapace di dare una giustificazione per il modo spregevole in cui gli ho tenuto segreto nostro figlio. Vedo la sua espressione ferita e posso riuscire a leggere sul suo volto che forse non mi perdonerà mai.
L'espressione di Jason muta quando gli confesso tutto e sul suo volto, il dolore lascia spazio alla rabbia. Inveisce contro di me, alzando la voce e non riesco a trattenere le lacrime.
Mi accascio a terra, in ginocchio, e cerco di calmare il pianto disperato. Lui è fermo davanti a me e non dice una parola, sento che piange e lo vorrei confortare, ma so mi odia.
Merito tutto il male che mi vuole. Ho sbagliato a tenergli nascosta l'esistenza di Elia, ma mi sono trovata del tutto impreparata.In confronto, la sua "fuga" senza spiegazioni è niente. Speravo davvero che le cose andassero diversamente, che fosse pronto a ricevere una notizia così sconvolgente e invece ho tirato troppo la corda che, si sa, prima o poi si spezza. E io l'ho tirata per le lunghe. Non meritava di scoprirlo per caso. Sarà stato una shock vedere la sua faccia in versione jr. Avrei voluto dirglielo io, avrei voluto fare le cose per come si deve, ma ho sbagliato i tempi (lunghi) e i modi (inesistenti).
Sono stata una stupida. Ero circondata di persone che mi dicevano tutte di fare la cosa giusta e io ho sempre seguito la mia testa difettosa. Se avessi seguito il cuore, glielo avrei detto tre anni fa, indipendentemente dal fatto se mi volesse ancora o no. Invece il mio maledetto orgoglio mi ha fatto agire diversamente e, ad oggi, ne sono sinceramente pentita.

Mi rialzo, asciugandomi le lacrime.

«Jase, mi dispiace. Mi dispiace sul serio».

Faccio per toccarlo, ma Jason si scansa e questo fa ancora più male. Poi, continuo: «Ero da sola, in un letto di ospedale e mi avevano appena sparato. Te ne sei andato senza dire una parola».

«Non avevi il diritto di tenermelo nascosto» mi urla contro.

«Non sapevo cosa fare! Avevo vent'anni e aspettavo il bambino di nessuno perché tu te n'eri già andato quando l'ho saputo. E allora ho deciso che non avevi il diritto di saperlo. Te ne sei andato perché per te ero niente. E niente saresti stato tu per il mio bambino».

«Il nostro, cazzo! Non è solo tuo! Cosa cazzo ti è passato per la testa? Che diritto hai tu di decidere per me?».

Le sue urla mi fanno sussultare. Non avevo mai visto Jason così arrabbiato e tremo per la paura. Non perché penso che mi farebbe del male, ma per paura di come andranno le cose da oggi in poi, perché so che l'ho perso per sempre.

«Ho sbagliato, ma ti prego, perdonami» lo omploro. «Ho sbagliato, Jase. Scusami».

Faccio per prendergli le mani, ma si tira di nuovo indietro.

«Non toccarmi!». Il suo urlo mi fa arretrare di qualche passo, ma la rabbia inizia a farmi reagire, sputando tutto quello che non ho detto in tre anni.

«TU!» lo spintono sul petto con tutta la forza che ho in corpo. «Ti ho chiesto scusa. Non continuare ad accusarmi. Credi che tu non abbia nessuna colpa? È lì che ti sbagli. Le mie scelte sono state tutte influenzate dal tuo comportamento. Non ho mai significato niente per te. Te ne sei andato senza pensarci e ora arrivi qua e mi accusi. Ma non sei ancora in gradi di darmi una spiegazione. Mi hai lasciata sola nel momento più brutto della mia vita. Se non volevi me non avresti voluto neanche lui». Continuo, urlando e  spintonarlo e poi dico: «ORA ESCI DA CASA MIA E ESCI DALLA MIA VITA!».

Jason, a quelle ultime parole, ha un sussulto. Sono stata dura, ma lui non è stato da meno. Abbiamo la stessa responsabilità in questa storia e non permetterò che mi mandi in pezzi più di quanto già non sia.

Dal walkie-talkie esce il pianto di Elia e, di colpo, asciugo le lacrime che non vogliono smettere di placarsi.

«Voglio che te ne vada subito non voglio trovarti qui quando torno». E vado a tranquillizzare il mio ometto che piange per le urla di due genitori che non si sanno confrontare.

Jason
Le sue ultime parole di Astrid mi fanno male al cuore, non dovevo accusarla in questa maniera. Sono sparito solo per il suo bene, non perché non la amavo. L'avrei tenuta sempre con me e avrei amato il bambino con tutto il cuore. Mi sarei potuto informare in questi tre anni, ma ho preferito starmene per conto mio e adesso che ne ho la possibilità non me ne starò in disparte. Farò parte della vita di mio figlio. Neanche so come si chiama...

Al suono di quel pianto mi paralizzo. Siamo stati noi a svegliarlo.

«Voglio che te ne vada subito non voglio trovarti qui quando torno» dice Astrid, dirigendosi verso la camera.

Quelle parole mi fanno sussultare, perché sono consapevole che non mi sta sbattendo fuori di casa, ma mi sta cacciando definitivamente dalla sua vita. Come mi ha detto prima.
Non voglio andarmene senza prima aver visto mio figlio. Voglio avere la possibilità che mi è stata negate per tre anni. Voglio essere suo padre e Astrid non può impedirmelo.

Il walkie-talkie continua a mandare il pianto del bambino e subito dopo la voce dolce di Astrid che lo rassicura.

«Amore, non piangere». La sua voce è melodiosa. Si è addolcita. Sembra quasi un'altra persona. «Amore, va tutto bene».

«Pendimi, pendimi». Quella vocina mi fa battere il cuore a mille. Per la prima volta sento parlare mio figlio. «Mammina, luccichi». E quella frase mi spezza il cuore quando è seguita dai singhiozzi di Astrid.

Senza pensarci per un momento, entro in casa e vado nell'altra stanza. Astrid è in piedi, davanti al letto, con il bambino in braccio che le asciuga le lacrime.

«Astrid» sussurro. E nel momento in cui parlo, due dolci occhietti marroni si fissano nei miei, intrappolandomi col suo sguardo curioso.

«Jason, no. Per favore» mi dice Astrid, tra le lacrime. La sua voce è calma. Il bambino continua a guardarmi e le sue palpebre si fanno sempre più pesanti.

«Voglio solo vederlo» sussurro, avvicinandomi cautamente. Il bambino è crollato sulla spalla della mamma. «Come si chiama?».

«Elia». Elia... avremmo potuto sceglierlo assieme il nome di nostro figlio.

È bellissimo e piccolissimo. Mi sono perso la sua nascita, il suo primo pianto, il suo primo dentino, la sua prima parola. Mi sono perso i primi anni della sua vita e non voglio sprecare altro tempo.

Astrid mi guarda con quei suoi occhioni tristi e pieni di lacrime. Non voglio più litigare con lei.

«Basta per stasera, ti prego» mi implora. Annuisco e la seguo sul suo letto, senza dire una parola, sdraiandomi accanto a lei e nostro figlio. Godendoci la quiete dopo la tempesta. 

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