arablu

54 7 0
                                    

Autrice: arablu

Quella sera, appena dopo cena, il direttore ci aveva convocati tutti con urgenza nel grande salone dell'orfanotrofio, già gremito quando ero arrivato. Come sempre, aveva atteso pazientemente che gli animi si calmassero poi, con la praticità e la pacatezza che lo contraddistinguevano, aveva pronunciato tre semplici parole che in pochi secondi avevano riacceso le chiacchiere appena spente. "Domani abbiamo visite" aveva detto. Nulla di speciale, eppure, per noi, quelle tre parole significavano tanto: casa, famiglia, affetto, vita. Quelle tre, miracolose parole avevano fatto nascere in noi quella speranza che compariva ogni volta che venivano famiglie in visita, quella speranza così pura e genuina simile a quella dei bambini, quella immortale.

Quando eravamo stati mandati a letto il fermento non si era ancora riassorbito e loro, comprendendo la nostra agitazione infantile, ci avevano permesso di rimanere svegli ancora per poco, con la promessa di non fare troppo rumore per non svegliare i più piccoli. I piccolini dopotutto erano abbastanza tranquilli, qui da noi venivano cresciuti con la certezza che più sei piccolo, più è facile essere adottato; loro di certo non erano agitati. Per me, invece, era più difficile rimanere tranquillo: ormai avevo sedici anni, ero troppo grande per gli standard di adozione; eppure, ogni volta che veniva annunciata una visita, il mio cuore batteva più forte, potevo sentire il suono sordo dei battiti rimbombarmi in tutto il corpo come un muto ricordo della mia agitazione.

Ovviamente la notte non riuscii a dormire, il nervosismo mi impediva di tenere le palpebre serrate per più di cinque minuti, e il respiro dei miei compagni di stanza, che di solito aveva il potere di calmarmi, non faceva altro che aumentarlo. Passai la notte in bianco però, incredibile a dirsi, la mattina dopo ero insospettabilmente calmo. Feci normalmente colazione con tutti gli altri e come gli altri partecipai attivamente alle lezioni. Tutto passato.

Dopo pranzo venimmo di nuovo radunati e messi in fila, pronti per l'accoglienza dei visitatori. L'ansia era di nuovo ricomparsa ma sapevo di dovermi calmare, ero il più grande, dovevo sempre dare il buon esempio. Pochi minuti entrarono: tre famiglie, due senza figli, una con un ragazzo che doveva avere più o meno la mia età. Non appena iniziarono a parlare con il direttore il tempo sembrò dilatarsi all'infinito, nulla si muoveva più se non le loro bocche, suoni ovattati e incomprensibili che mi arrivavano alle orecchie. Noi lì fermi immobili in fila.

Finalmente il colloquio finì e ci divisero in fasce d'età a seconda delle preferenze. Ero sicuro che la famiglia del ragazzo avrebbe scelto uno dei piccoli, in fondo uno già grande ce l'avevano; invece si diressero verso il mio gruppo, formato appena da cinque persone. Le uniche cinque in età da liceo, i senza speranza, come venivamo chiamati. Erano gentili, molto cordiali, ci fecero molte domande ma diedero anche molte risposte a noi, che non facevamo altro che chiedere e chiedere. O meglio, i miei compagni chiedevano, io non facevo altro che ascoltare ogni parola, ogni respiro emesso dalle loro labbra.

Dopo due ore passate a parlare con noi raggiunsero il direttore nel suo ufficio e di loro non avemmo più notizie fino al giorno dopo. Un giorno che non mi dimenticherò mai, quello che ha cambiato la mia vita.

Sono già passati due anni da allora, tanto è cambiato e altrettanto è rimasto lo stesso. Però adesso so che il mio cuore aveva ragione ad aumentare i battiti al suono di quelle tre parole, so che il nervosismo che mi pervadeva non era inutile: era solo l'avviso di un grande cambiamento.

Concorso scrittura {ISCRIZIONI CHIUSE}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora