Autrice: Emi_2808
Il ricordo non cesserà mai di tormentarci, il dolore di distruggerci e il senso di colpa di annientarci.
È primavera, siamo ormai agli inizi di Maggio, ma le temperature qui in Polonia non sono mai state stabili. Il forte vento muove le foglie degli alberi e i lunghi fili di erba dei campi, che si vedono in lontananza dalle finestre del mio vagone. Quasi fossero consapevoli del grande disordine e tormento, che mi porto dentro da ormai otto anni.
«Papà, ma dove stiamo andando?» chiede la piccola Friede, seduta accanto a me, mentre osserva rapita il paesaggio esterno.
«Andiamo in un posto molto importante per papà. Un posto che papà deve affrontare. Un posto che ha segnato la vita sia mia che tua» rispondo, scandendo le parole, anche se so perfettamente che è troppo piccola per capirmi. Del resto, era ancora una neonata in fasce, quando tutto successe.
"ARBEIT MACHT FREI". (Il lavoro rende liberi)
Tre semplici parole che avevano e hanno ancora una forza di distruzione terribile, disumana. Tre parole false, crudeli e senza pietà che ingannarono milioni di persone, persone che sognavano solo di poter continuare a vivere.
Sono passati otto anni da quando misi per l'ultima volta il piede in quell'inferno. Ricordo ancora, come se fosse ieri, l'arrivo dei soldati americani davanti ai cancelli del campo e la luce della speranza, che si era riaccesa in ognuno di loro, dei tedeschi pieni di vergogna per le disumane scelte politiche del nostro paese, prigionieri di guerra, ma soprattutto uomini e donne ebrei.
Ricordo perfettamente l'incontro che mi segnò per sempre la vita, in meglio. L'incontro che mi regalò quella che ora è la mia gioia più grande, Friede.
Il campo di sterminio di Auschwitz è totalmente incustodito, in parte distrutto e abbandonato. Riesco ad entrare senza problemi nonostante la guerra non sia finita, le difficoltà non siano svanite e i conflitti tra le varie potenze non si siano cancellate con la pace stipulata nel 1945.
Pace.
È una parola così semplice da pronunciare, ma altrettanto facile da dimenticare. È sulla bocca di tutti, ma non è nel cuore di nessuno. Sembra un concetto lontano, che forse l'uomo non riuscirà mai a raggiungere completamente.
Cammino per le strade di questo campo assassino, stringendo forte tra le braccia il corpo della piccola Friede. Cammino con angoscia, passo dopo passo sento di espormi nuovamente al dolore, al senso di colpa che mi attanaglia il cuore e al segreto indicibile che tengo dentro di me, che dovrò nascondere per sempre a mia figlia. Un segreto di cui lei fa parte, un segreto che solo grazie alla sua esistenza non ha ancora avuto il sopravvento su di me.
Raggiungo il tumulo di terra su cui ho piantato un palo di legno con scritto "3526715" e mi inginocchio sulla terra fredda.
«Sono venuto a farti visita, amico mio. Sono passati anni ormai e guarda come è cresciuta la nostra Friede. Non l'avresti mai detto, vero?».
L'uomo che è sepolto sotto questo cumulo di terra disordinata, era uno dei tanti detenuti ebrei che io incrociavo spesso in questo campo di concentramento. Era magrissimo, debole, ma con gli occhi che brillavano di una luce rara, di una speranza che, anche lui sapeva benissimo, sarebbe stata vana e inutile. Ma nonostante tutto continuava a crederci e quella sua luce non si è persa, bensì si è raccolta e si è diffusa in misura ancora maggiore, negli occhi limpidi di Friede.
Io facevo l'infermiere, per l'esattezza ero assistente dei tanti scienziati e medici che giravano per il campo, in un'ala speciale, dedita secondo quello che ci raccontavano all'epoca, a studi ed esperimenti per migliorare la condizione umana. Ma mai avrei pensato che quello che succedeva lì dentro fosse così folle, totalmente pazzo e disumano.
Continuavo a svolgere il mio lavoro tranquillamente, ignaro di quello che si stava andando a creare di più grande. Lavoravo sodo, pensavo di giovare al mio paese con la fatica e l'impegno. Ma quello che feci, fu soltanto alimentare la diabolica macchina di distruzione che menti malate progettarono a discapito di milioni di vite.
Quello che feci forse non fu considerato grave, ma lo era. Ero io la prima pedina da cui prendevano vita gli esperimenti dei miei superiori. Ero io quello a disporre gli attrezzi e i medicinali. Ero io quello che si doveva occupare delle pulizie dei laboratori. E mai mi sono accorto di quello che succedeva la dentro.
Ero colpevole e senza possibilità di scampo.
In quella lontana sera di dicembre del 1944, incontrai quest'uomo, di cui non conosco nemmeno il nome, ma solo il numero.
Stava correndo nel buio, disperato. Aveva qualcosa che teneva tra le braccia e si stava dirigendo verso il cancello, verso i fili spinati che conducevano scariche elettriche letali.
Non sapevo cosa fare, avevo solo ventitre anni ed ero in fase di prova come assistente infermiere e a noi non era concesso avvicinarci alle baracche dove stavano gli ebrei, tantomeno scambiare parola con loro.
Lo osservavo avvicinarsi ancora di più al filo spinato e in quel momento non riuscii a trattenermi. Corsi fino a raggiungerlo e lo bloccai per un braccio. L'uomo si voltò terrorizzato verso di me e indietreggiò stringendosi ancora di più al petto ciò che mi resi conto, essere un neonato in fasce.
«Cosa stai facendo? Mi capisci, se parlo in tedesco?» chiesi, mentre cercavo di avvicinarmi senza spaventarlo. «Non ti voglio fare del male».
L'uomo davanti a me esitò prima di annuire e una volta guardatosi attorno, forse per accertarsi di essere soli, si inginocchiò in lacrime davanti a me.
«So che sei tedesco. Se vuoi uccidermi, fallo pure, ma non fare del male a mia figlia, ti prego».
Stavo per ribattere qualcosa, ma fui interrotto da un forte rumore di scalpitio, segno evidente che la guardia si era mobilitata.
L'uomo si alzò di scatto e mi lasciò la piccola tra le braccia. «Si chiama Friede (Pace). L'abbiamo voluta chiamare in tedesco perché siamo convinti che un giorno la Germania ci capirà e ci accetterà. Questa piccola creatura è la nostra unica speranza, la prego di salvarla» mi scongiurò tra le lacrime prima di ripartire in corsa verso la parte opposta del campo, con il chiaro scopo di creare un diversivo per farmi scappare e portare in salvo la bambina.
Quella notte rischiai la vita, ma non potevo non portarla fuori da quel disastro e la affidai alla mia ragazza che la accettò subito. Lei aveva capito prima di me, prima di chiunque altro, che quello che stava succedendo era folle. Aveva accettato subito di crescere una bambina ebrea senza mostrare paura. Grazie a lei avevo capito di aver sbagliato tutto, di essermi messo dalla parte sbagliata e di aver mandato a morte gente innocente.
La consapevolezza di aver contribuito al progetto di distruzione di un intero popolo mi accompagna ancora tutti i giorni della mia vita e piano piano, mi logora dall'interno.
È un dolore troppo grande da sopportare, una colpa troppo difficile da espiare e un segreto troppo brutale da far conoscere.
Friede non ha bisogno di sapere la verità. Non si merita di scoprire che l'uomo che ha sempre chiamato "papà" in verità, fu uno dei colpevoli della morte della sua gente, del suo vero padre. Lei non ha colpe e mai vorrò vederla soffrire a causa mia.
«Papà, perché piangi?» si inginocchia accanto a me la piccola bambina dai ricci bruni.
«Saluto un amico che ormai non c'è più. È in un posto migliore, adesso» rispondo, abbracciandola per sentire il calore della sua presenza.
«È il tuo angelo custode?» chiede, iniziando ad accarezzare la terra. «Caro angelo custode, per favore, proteggi sempre mio papà» mi sorride.
Amico mio, non so se riesci a vederci.
Quella notte mi dissi che dovevo insegnarle ad amare, ma non ce n'è il bisogno, perché la persona che sta insegnando ad amare è proprio lei, Friede.
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Concorso scrittura {ISCRIZIONI CHIUSE}
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